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È finalmente possibile riabilitare il dissenso nella Chiesa?

È finalmente possibile riabilitare il dissenso nella Chiesa?Giovanni Franzoni

Cattolicesimo Dopo la visita di papa Francesco a Bozzolo e Barbiana, la triste notizia della scomparsa di Giovanni Franzoni pone alla Chiesa una domanda che, in una certa misura, riguarda la […]

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 14 luglio 2017

Dopo la visita di papa Francesco a Bozzolo e Barbiana, la triste notizia della scomparsa di Giovanni Franzoni pone alla Chiesa una domanda che, in una certa misura, riguarda la natura stessa dell’operazione di recupero della memoria che il pontefice sta compiendo fin dal suo insediamento.

È finalmente giunto il tempo per riabilitare il dissenso? È possibile oggi che la Chiesa compia una riflessione sincera sui suoi anni Settanta e sulla repressione che colpì le punte più avanzate del rinnovamento post-conciliare?

Come è stato fatto notare anche dalle pagine di questo giornale, nel caso di don Milani sarebbe sbagliato parlare di una «riabilitazione», dal momento che la sua ortodossia non è mai stata in dubbio.

Il problema si pone invece di fronte a coloro che scelsero la strada della contestazione aperta, della disobbedienza consapevole delle conseguenze disciplinari che avrebbe comportato.

Viene subito alla mente il caso di don Enzo Mazzi, strappato con violenza dalla sua comunità. E poi don Marco Bisceglia, negli anni Ottanta fondatore dell’Arcigay, ma un tempo alla testa della comunità di Lavello, da cui fu mandato via nel 1974 per aver sostenuto il divorzio prima di essere sospeso a divinis.

E naturalmente Franzoni, l’«abate rosso» della basilica di San Paolo fuori le mura nel quartiere Ostiense, anche lui vittima della repressione per essersi sottratto alla campagna referendaria antidivorzista, e divenuto famoso a livello nazionale per la sua adesione (non iscrizione) al Pci in quel caldissimo anno elettorale che fu il 1976.

C’è molto di più però nella biografia di Franzoni… Ci sono dentro le principali contraddizioni della Chiesa del secondo Novecento, a partire da quelle generate dal Concilio Vaticano II, a cui Franzoni ha partecipato attivamente come uno dei padri vicini a Paolo VI, salvo poi essere stato estromesso da tutte le celebrazioni successive dell’evento. C’è soprattutto la storia della comunità di San Paolo, organizzata in maniera «orizzontale» da laici, donne e uomini, che erano immersi nelle vicende sociali e politiche della società, della città e del quartiere.

San Paolo è stato un modello per la rete delle comunità di base, che ha cercato non di fondare un’altra Chiesa, ma di realizzare dal basso una «chiesa altra», in cui la liturgia è gesto collettivo di confronto e si riscopre il senso della parola ecclesia. Arrivano poi gli anni Ottanta e Franzoni e la sua comunità si fanno trovare sempre in prima linea in difesa della 194, nelle vertenze del movimento operaio, e in tempi più recenti contro le guerre in Iraq e Afghanistan. Nonostante quella che veniva considerata un’involuzione del percorso conciliare, non è mai venuto meno l’impegno per testimoniare l’esistenza di un cattolicesimo diverso da quello che negava a Piergiorgio Welby il funerale religioso e mette le donne ai margini della Chiesa.

Sappiamo che negli ultimi anni Franzoni aveva manifestato la sua simpatia per l’aggiornamento avviato da papa Francesco, senza tuttavia riuscire a ottenere un contatto diretto.

A questo punto resta solo da capire se il papa è disposto a fare i conti fino in fondo con un passato scomodo che chiama in causa i grandi nodi che si è proposto di sciogliere. Agli eredi di quella stagione di disobbedienza tocca invece domandarsi se una conciliazione della memoria è necessaria o comunque auspicabile.

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