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A Rijeka si spera nella barca di Tito

A Rijeka si spera nella barca di TitoRottame di nave nel cantiere croato di Pola – Christian Elia

Croazia La storia operaia civile raccontata dall'antropologa Sanja Puljar D’Alessio: dopo Pola, anche il «3 Maj» è a rischio

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 18 agosto 2019

Entro il 29 agosto dovrà essere messo a punto il modello per il salvataggio dello stabilimento del cantiere navale 3. Maj di Rijeka. Il governo rassicura, si spera di vincere l’appalto per la ristrutturazione del Galeb, la mitica imbarcazione del maresciallo Tito, ora in disarmo nel porto di Fiume, ma in generale sarà la credibilità del piano economico del governo a stabilire se si salveranno i posti di lavoro.

Un altro pezzo di storia, altri lavoratori a rischio. Nato nel 1895, sopravvissuto anche lui a due conflitti mondiali, alla fine dell’Impero austro-ungarico e all’occupazione nazi-fascista, rischia oggi di fare la fine del cantiere di Pola, dopo essere stato un simbolo della Jugoslavia, prende il nome dalla data del 3 maggio 1945, giorno in cui i partigiani jugoslavi liberarono la città.

Sanja Puljar D’Alessio, antropologa e docente dell’università di Rijeka, ha scritto un libro, «Mi gradimo brod, a brod gradi nas: etnografija organizacije brodogradilišta 3. maj» (Noi costruiamo la nave, la nave costruisce noi: etnografia dell’organizzazione del cantiere 3 maggio) che attraverso anni di lavoro e di interviste ha raccontato il rapporto tra il cantiere e la città.

«All’inizio non è stato un rapporto facile, almeno al di là della storiografia ufficiale. Negli anni Ottanta aveva 8 mila dipendenti, è stato importante per lo sviluppo della città, però, come raccontavano alcuni, subito dopo la guerra la cantieristica per la Jugoslavia rivestiva un ruolo strategico. Le decisioni venivano prese a Belgrado, non qui. Vennero investite somme enormi, bisognava ricostruire tutto, in uno dei settori più complessi che garantivano una manodopera capace di costruire o ricostruire ogni cosa anche nel Paese», racconta.

«Per ricostruire in fretta, i cantieri erano sotto l’amministrazione dei militari, non dei civili. E reclutavano il personale necessario senza troppi complimenti. Alcuni, ancora adolescenti, vennero avviati al lavoro: studiavano in scuole tecniche dedicate parte della settimana, il resto in cantiere. All’inizio quindi il rapporto della città con il cantiere era controverso, come qualcosa di esterno, e tanti operai arrivavano da altre zone, come la Slavonia e la Bosnia occidentale.

Dopo gli anni Novanta, il ruolo di Belgrado venne preso da Zagabria, che continuò una gestione centralizzata e poco locale del cantiere che pure aveva un impatto occupazionale ed edilizio enorme sulla città. In generale, però, è naturale che il rapporto sia solido. La grande perdita che, comunque vada a finire, c’è già stata, è quella della produzione culturale. Perché al di là del lavoro, il 3 Maj era un centro di produzione culturale e di attività sportive e sociali che coinvolgevano tutta la comunità. Molto di quel materiale è andato perduto, come le competenze».

«Un tempo – prosegue l’antropologa – nell’ufficio incaricato di studiare le tendenze del mercato globale lavoravano 140 persone, oggi tre, e nessuno di questi manager che tagliano tutto quello che ritengono improduttivo, come la cultura, è mai andato a interrogarli. Rispetto alla condizione attuale, durante le mie interviste, ho potuto partecipare alla prova generale di una nave costruita qui. Il capitano, mandato dal compratore, ha definito eccellente la nave, ma non l’ha comprata. Quando ho chiesto come mai, mi ha risposto che quella è una nave destinata a durare anni, ma oggi non è richiesta questa qualità. Tutto viene distrutto in fretta. Ricordo ancora la delusione degli operai che aspettavano l’esito di quella commessa. Se c’è un simbolo, per me, è Tomislav. Un ingegnere giovane, entusiasta, che durante il mio lavoro di interviste era tra i più convinti che si potesse rinnovare tutto e continuare una tradizione centenaria. L’ho cercato nei giorni scorsi, per una presentazione del mio libro. Mi ha risposto dall’Olanda dove, alla fine, è emigrato. Si aspetta questa decisione, ma in generale non c’è una chiara idea di futuro rispetto a tutta la vita economica della città, che sembra in un precario equilibrio tra il turismo e una sorta di pendolarismo migrante con l’estero».

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