Le ultime ore di vita di Dylan Thomas hanno ricevuto forse più attenzione della sua intera esistenza. Sono state raccontate come un poema epico-clinico, il cui inizio fu l’addensarsi dello smog su New York, dove il poeta si trovava, e che il 2 novembre 1953 causò la morte di duecento persone. Thomas, che soffriva di polmoni, avrebbe dovuto stare chiuso nella sua stanza al Chelsea Hotel, ma non poteva. Era in America in tour, doveva assistere alle prove del suo dramma Sotto il bosco di latte, incontrare Stravinskij per discutere il libretto di un’opera post-apocalittica (l’umanità che riscopre il linguaggio dopo la guerra nucleare) e soprattutto intendeva bere, moltissimo, come del resto era solito fare.

La sera del 3 novembre uscì per due bevute in compagnia. Alle due del mattino si diresse di nuovo alla White Horse Tavern, all’angolo tra Hudson Street e l’Undicesima Strada. Tornato al Chelsea Hotel si vantò di aver bevuto diciotto whisky, e qui i numeri si fanno leggendari, perché altri dicono che fossero ventuno e altri ancora riducono il numero a nove. Il giorno dopo, il 4 novembre, tornò alla White Horse insieme a Liz Reitell, assistente del poeta John Brinnin, che l’aveva invitato a New York, e con la quale Thomas aveva iniziato una relazione. Alla mezzanotte del 5 novembre, al Chelsea Hotel, Liz lo vide diventare blu e chiamò un’ambulanza. Venne ammesso al St. Vincent Hospital già in coma. Morì a mezzogiorno del 9 novembre, di polmonite e non di cirrosi epatica che, a quanto dicono, non lo riguardava. Pare che le sue ultime parole siano state: «Voglio tornare al Giardino dell’Eden, rimanere per sempre incosciente». Aveva appena compiuto trentanove anni.

La moglie, Caitlin Macnamara, era arrivata a New York il 6 novembre ed entrando di furia nell’ospedale aveva gridato: «Dov’è quel maledetto?» O, secondo altri: «Dov’è quell’animale?» Anche lei ubriaca, aggredì John Brinnin con tale violenza che il medico di Thomas le fece mettere una camicia di forza e la internò in una clinica di Long Island per disintossicarla. Alla White Horse Tavern c’è una targa, sopra il tavolo al quale Dylan Thomas era solito sedere, che ricorda le sue imprese di bevitore e di poeta. Il protagonista di Nota di un suicida, un romanzo di Michael Thomas Ford, si chiede che cosa possa aver pensato il barista mentre gli versava un bicchiere dopo l’altro, vedendolo crollare davanti ai suoi occhi.

Dylan Thomas è tanto ebbro di linguaggio quanto lo è di whisky. Non è possibile leggere le sue poesie, i drammi, i racconti e le sceneggiature senza respirare di seconda mano un po’ del suo fiato. È un poeta eroico-distruttivo, che intossica anche il più distratto dei lettori. Non ha precursori né continuatori, non sembra aver mai letto altra poesia se non la propria, e va accostato con l’avvertimento di Montale, il quale tradusse splendidamente, anche se non proprio thomasianamente, La forza che urgendo nel verde calamo guida il fiore: «Forse è un errore volerlo comprendere troppo, fondamentalmente era un analogista a sfondo religioso, che non avrebbe scritto un rigo se si fosse davvero chiarito razionalmente».

In italiano, Dylan Thomas ha avuto traduttori del calibro di Ariodante Marianni (1965) e Roberto Sanesi (1974). Non però un’edizione complessiva dei suoi versi che solo ora può dirsi ultimata grazie al volume di Poesie inedite curato da Emiliano Sciuba per Crocetti (pp. 256, € 18,00), volume tutto diverso da quello delle altre Poesie inedite tradotte da Marianni per Einaudi nel 1980.

Sciuba si è assunto il compito un po’ ingrato di misurarsi con poesie che, pur non potendosi considerare minori, introducono all’officina del poeta nel suo stato più vulcanico, senza che un’opzione di stile (alto, medio o basso) possa additare un percorso preferenziale al traduttore. In effetti, fino a Foster the Light / Sostieni la luce leggiamo versi, non poesie. Leggiamo nuvole, furia, inclemenze del tempo, la certezza che ad Adamo è rimasto solo il linguaggio, con cui però tutto può. Leggiamo un amore sviscerato per le potenzialità della parola, trauma e estasi del nascere al mondo. Non è vorticismo, quello di Dylan Thomas, non è imagismo e nemmeno surrealismo. È una sorta di neo-orfismo dionisiaco-apocalittico, rappresentazione della salvezza del mondo che il poeta si mette sulle spalle. Solo da Sostieni la luce in poi scorgiamo un barlume di composizione, un timido ordine nel caos analogico. Si farà sempre più forte giungendo alla sezione «Poesie sparse», che hanno poco da invidiare a quelle più conosciute.

A quale scuola poetica si potrebbe mai ricondurre un verso come «La gloria scoppiò come una pulce» (da Un santo in procinto di cadere)? E quale ricerca di senso non si deve arrendere davanti a: «E questa via conduce al bene e al male / Dove ci sono più amici che lumache» (da Inseguire la volpe)?

La traduzione di Sciuba accompagna l’evoluzione dell’autore, nei pregi come nelle debolezze. Nelle prime poesie si avverte lo sforzo di seguire fedelmente il testo anche là dove non presenta nessun punto d’appoggio: a nessun traduttore si chiede di migliorare l’originale, e in questo caso l’autore non aiuta. Il suo lessico è immaginoso ma non ricercato, il che porta a volte a un’eccessiva letteralità del dettato italiano. Ma a partire dal momento in cui Thomas diventa più sicuro di sé, quando comincia davvero a comporre, anche la traduzione fa un balzo. In Richiesta a Leda, la resa: «Il verme (millimetrico) ragiona dentro il frutto», suona anche meglio di «The worm is (pin-point) rational in the fruit». Lo stesso vale per «La morte va da chi è incantevole», che rende pienamente il contratto «Death comes to the beautiful» (da Donna su arazzo).

Dylan Thomas ha ispirato parecchi musicisti – da Stravinskij a John Cale dei Velvet Underground (anche lui gallese come Thomas), ma non Bob Dylan, come invece Sciuba ripete, insieme a tanti altri, nell’introduzione. Quando Dylan decise di adottare un nome di scena ed era incerto tra Bob Dillon, Robert Allen e Robert Allyn, gli capitò di «vedere» (come disse poi lui stesso) alcune poesie di Dylan Thomas, rimanendo colpito dal gioco grafico del nome. Non sapeva che in gallese si pronuncia Dullan e che Thomas lo pronunciava Dillan. La combinazione di «D» e «y» gli sembrò accattivante, e la scelse: non in forza delle poesie, però, che infatti non ha mai citato, benché anche per Bob Dylan valgano le parole di Montale («un analogista a sfondo religioso…»).

Dylan Thomas non è religioso perché crede, ma perché dice cose come: «Nessuno su questa cisti di terra crede / A chi non trafigge la sua fede, / Nessuno, nessuno, nessuno» (da Nessuno crede). Nell’introduzione, Sciuba cita un passo di Alda Merini che distingue tra la noia diabolica del vizio e l’avventura religiosa del peccato. Vale, certamente, per Dylan Thomas: la sua poesia, come il suo bere, non erano un vizio bensì un peccato sempre rinnovato. Forse non se lo è mai chiarito «razionalmente», ma sapeva che bisogna peccare molto per tornare, di là dal linguaggio, inconsciamente, al Giardino dell’Eden.