Il gotico, fin dalle sue origini, è legato agli spazi chiusi, e non sarà un caso se condivide il nome con uno stile architettonico prettamente medievale. Il fantastico del XIX secolo, che dal gotico origina, conserva per quasi tutto il secolo i tratti distintivi del movimento inaugurato da Walpole e Beckford: Poe giunge fino a immaginare la condizione di un sepolto vivo (quale spazio più chiuso di una tomba?), Stoker non può introdurre Dracula nella letteratura vittoriana senza passare per le sale e le cripte di un castello transilvano. E Wilde, nel suo Dorian Gray, deve recludere il fatale ritratto in una soffitta che il suo dandy assassino custodisce con la stessa gelosia di un Barbablù. Sembra esserci, fra l’altro, una curiosa risonanza con la stagione inaugurale del giallo, che nell’Ottocento si direbbe ossessionato dall’idea del delitto nella stanza chiusa (da Poe, ancora una volta, a Conan Doyle fino al Chesterton dei racconti di padre Brown).

Eppure l’ondata romantica, che ricomprende anche il gotico, era anche carica di fascinazione per gli spazi aperti, specie se remoti, misteriosi, inaccessibili, pericolosi. Basterebbe pensare alla ballata di Coleridge, con la nave dell’Antico Marinaio che sfugge miracolosamente ai ghiacci dell’Antartide per finire imprigionata dalla bonaccia del Pacifico – e sicuramente è percorsa da risonanze orrorifiche (non a caso fu una lettura fondamentale per Poe). C’è un horror delle cripte e dei sotterranei (che ha conosciuto un inaspettato revival con Casa di foglie di Danielewski), ma c’è anche l’horror della wilderness. Ne è testimone I salici, romanzo breve dello scrittore inglese Algernon Blackwood (traduzione di Massimo Berruti, Il Saggiatore, pp. 104, € 17,00), opera di un autore appassionato di escursionismo, che passò parte della sua vita in Canada (non a caso l’altra sua opera più famosa, Wendigo, è ambientato nelle gelide distese del grande nord). 

In Blackwood l’amore per la vita all’aria aperta si coniuga con la passione per l’esoterismo: fu membro dell’Ordine Ermetico della Golden Dawn (da non confondere con l’alba dorata dei camerati greci), della Società Teosofica, del Ghost Club, una delle più antiche associazioni di ricerca sul paranormale. È qualcosa di così assolutamente inglese, questa coniugazione dell’amore per la natura con la fede nel soprannaturale, da ritrovarsi iscritto nel paesaggio stesso di quella terra, se si pensa a Stonehenge incastonata nella verde piana di Salisbury. 

Ma I salici ha tutt’altra ambientazione: siamo nella piana danubiana, tra Vienna e Budapest, dove due amici, un inglese e uno svedese, stanno pagaiando sul grande fiume, intenzionati a raggiungerne la foce nel Mar Nero. Entrano così in un tratto del Danubio dalle mille diramazioni, dove isole effimere di sedimenti si formano, si coprono di salici, per venire poi erose e spazzate via dalla prima piena. Nonostante Blackwood ci porti al centro dell’Europa, siamo in un territorio alieno per la sua impermanenza, uno spazio effimero dove allignano presenze enigmatiche: forse gli stessi salici, forse qualcosa o qualcuno che nei salici dimora. E sembra  di tornare alle credenze dei celti, che ogni albero consacravano a una diversa divinità. Così, avvenimenti apparentemente insignificanti – una lontra trascinata dalla corrente, un uomo che si sbraccia per avvertire i due canoisti di non si sa bene cosa, uno strappo sul fondo della canoa – si caricano di implicazioni inquietanti, in un crescendo angoscioso.

Ma come insegna Todorov, siamo nello spazio dell’esitazione. Forse l’isolotto dove si fermano a campeggiare i due canoisti è veramente infestato; o forse quelle presenze minacciose sono nient’altro che proiezione delle paure, se non delle psicosi, dei due amici. Forse il pericolo viene da noi stessi e non da qualche misterioso altrove. Per questo è soprattutto lo spazio interiore a interessare Blackwood, che raccontare rigorosamente in prima persona, seguendo l’alternarsi degli stati d’animo sempre più concitati dell’anonimo io narrante. Tutto questo in un territorio splendidamente evocato, una terra che allora, nel 1907, ancora si presentava come wilderness, nonostante si trovasse nel cuore del Vecchio Mondo.