Due donne con carriere di successo – bionde, eleganti, sensuali, complicate, credibilmente a loro agio nei rispettivi matrimoni con mariti intellettualmente stimolanti e figli che crescono circondati di affetto. Sono le protagoniste dei due titoli francesi diretti da donne in concorso a Cannes, L’été dernier di Catherine Breillat e Anatomie d’une chute di Justine Triet. Su queste creature, così appagate in apparenza, entrambi i film aprono un’ombra. Il film di Triet (già in concorso nel 2019, con Sybil) appartiene alla vena di quel cinema d’autore europeo intellettuoso ma deciso a sporcarsi con il genere, apprezzato dal presidente della giuria Ruben Östlund che lo ha premiato con la Palma d’oro. Sandra (Sandra Huller, anche protagonista di Zone of Interest di Jonathan Glazer) è una scrittrice affermata che vive in una baita, isolata nella neve delle Alpi francesi, con il marito Samuel e il figlioletto Daniel, parzialmente cieco.

Una scena da «L’été dernier» di Catherine Breillat

LA INCONTRIAMO durante un’intervista con una giovane laureanda, nel cui palleggio verbale divertito – condito da un bicchiere di vino rosso a metà pomeriggio – aleggia il sapore di un flirt. Più tardi lo stesso giorno, Daniel, tornando da una passeggiata con il cane, trova davanti a casa il corpo di suo padre, precipitato dalla finestra. Sandra non si è accorta di nulla perché, dice lei, stava dormendo. Ma è l’unica sospetta possibile e finisce sotto processo. Sempre per la serie «le cose che non si fanno» (come il vino e il detour bisex, che emergerà in tribunale) assume come avvocato un amico che non vede da anni e con cui forse aveva avuto una storia. Progressivamente, Anatomie d’une chute (che è, allo stesso tempo l’anatomia di un crimine e quella di un matrimonio) si (co)stringe in un dramma processuale in cui la ricostruzione finale degli eventi viene affidata al bambino debole di vista – per un finale «aperto» in un film purtroppo deterministico.
Anche Anne (Lea Drucker), in L’été dernier annaffia le sue conversazioni con copiosi bicchieri di vino – bianco come il colore dominante nel suo guardaroba alto borghese di famoso avvocato, specializzata in cause per la protezione dei minori. Non è solo la serenità coniugale di Anne, ma il sistema di valori che lei riflette professionalmente, ad essere messo in forse dall’arrivo di Theo (Samuel Kircher), figlio diciassettenne del primo matrimonio di suo marito, e quindi almeno trent’anni più giovane di lei.

È SOLO QUESTIONE di tempo perché tra i due scoppi una passione la cui prepotente carnalità, anche nelle scene più intime, ci viene rivelata in una mise en scene dei volti (ed è una delle tante, belle scelte di Breillat). Parzialmente ispirato dal film danese Queen of Hearts (2019), L’été dernier (come d’altra parte May December di Todd Haynes) è meno interessato a rispolverare il coté illegittimo del rapporto tra una donna matura e un ragazzo (per ricordare poi che, invertendo i sessi, ci si trova di fronte quasi a un’abitudine) che ad aprire invece dei punti interrogativi su cosa quella differenza d’età significhi – per esempio quando l’affaire salta fuori e Anne calibra la sua reazione (a sorpresa, drammaticamente parlando, ma ancor più per una storia di amour fou) grazie a degli strumenti che Theo non può ancora avere. La provocazione del film non sta infatti nella relazione «scandalosa» tra Theo e Anne, ma nel nell’accettarne la sincerità e l’immediatezza senza, allo stesso tempo, condannare Anne all’autodistruzione o al rifiuto. Nel film di Breillat (dietro a cui sta lo spericolato produttore tunisino Said Ben Said, abituale collaboratore di Verhoeven), lo scandalo è più sottile. Sta nella zona oscura, dove si scava faticosamente, tutti i giorni, ogni rapporto d’amore. Ed è uno scandalo più profondo, come d’altra parte le cicatrici che lo accompagnano.