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Due anni di battaglia solitaria, la Procura di Roma chiuderà le indagini su Regeni

Due anni di battaglia solitaria, la Procura di Roma chiuderà le indagini su RegeniFiaccolata per Giulio Regeni – LaPresse

Italia/Egitto Due anni fa l'iscrizione di cinque egiziani, membri dei servizi segreti, nel registro degli indagati. Dal Cairo solo silenzi, dal governo italiano nessun aiuto

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 29 ottobre 2020

Il 4 dicembre 2018 la Procura di Roma annunciava l’iscrizione nel registro degli indagati di cinque agenti della Nsa, la sicurezza nazionale egiziana. Dava un nome ai presunti rapitori, torturatori e assassini di Giulio Regeni, scomparso al Cairo quasi tre anni prima, il 25 gennaio 2016, e ritrovato senza vita il 3 febbraio successivo.

Tra poco più di un mese quell’iscrizione compirà due anni, i 24 mesi oltre i quali il codice di procedura penale non permette di andare. Per questo ieri la Procura ha fatto sapere di essere prossima alla chiusura delle indagini sull’omicidio del giovane ricercatore friulano.

Lo ha comunicato mentre al Cairo si svolgeva l’ennesimo incontro tra il team investigativo di Ros e Sco e gli inquirenti egiziani. Quelli che da anni promettono la luna ma non consegnano neppure il dito che la indica. A partire dalle richieste che Piazzale Clodio ha inserito nella rogatoria dell’aprile 2019 e rimasta senza risposta alcuna.

L’ultima promessa risale allo scorso primo luglio quando il procuratore capo Michele Prestipino insieme al pm Sergio Colaiocco, in videoconferenza, chiese lumi e risposte rapide.

In cima agli interessi della Procura romana sta l’elezione di domicilio dei cinque indagati e la conferma della presenza di uno di loro in Kenya, nell’agosto 2017, quando lo si sentì a un pranzo riferire dettagli specifici sulla sparizione di Giulio.

Il primo luglio regnò il silenzio nello spazio virtuale che divideva gli inquirenti, plastica rappresentazione della distanza siderale tra le intenzioni di verità degli uni e quelle di insabbiamento degli altri.

Ieri il primo a intervenire in merito è stato Erasmo Palazzotto, deputato di Leu e presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Regeni: «Tale circostanza pone in capo al governo la responsabilità di esercitare ogni tipo di pressione diplomatica nei confronti dell’Egitto. In assenza di una risposta adeguata dovremo prendere atto e trarne le dovute conseguenze». Finora non pervenute.

Sentito dalla Commissione il 18 giugno, due settimane prima della videoconferenza del primo luglio, il primo ministro Conte aveva tracciato la strategia governativa: si ottiene rispetto e collaborazione da amici, continuando a intrattenere rapporti diplomatici e commerciali con Il Cairo. Il riferimento era all’autorizzazione alla vendita al regime di due fregate Fincantieri da 1,2 miliardi di euro, mai bloccato.

Due anni fa l’iscrizione nel registro delle notizie di reato da parte dell’allora procuratore Pignatone era stata accolta con favore dalla famiglia Regeni. Con un lavoro certosino capace di superare un percorso irto di ostacoli e silenzi, la Procura di Roma era riuscita a individuare almeno cinque funzionari della Nsa responsabili del rapimento.

I loro nomi fanno tremare i muri dell’impalcatura di omertà di cui è fatto il regime del presidente al-Sisi: il generale Sabir Tareq, i colonnelli Usham Helmy e Ather Kamal, il maggiore Magdi Sharif e l’agente Mahmoud Najem.

Li fanno tremare perché dimostrano che la teoria del «caso isolato» e – peggio – delle mele marce non regge: i cinque erano/sono figure centrali nella macchina statale egiziana del controllo sociale e della repressione fisica, ingranaggi del sistema Nsa, erede del temuto Ssis, l’intelligence nota a ogni egiziano nell’epoca Mubarak.

La rivoluzione del 2011 non l’ha spazzata via: ha cambiato nome, ma la fattura è identica e anche il suo controllore, il ministero degli Interni.

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