L’aula di Strasburgo è semivuota e tiepida. Draghi non si scoraggia e sciorina la sua formula per trasformare «una delle più gravi crisi della storia della Ue» in occasione per far fare all’Unione medesima un passo da gigante sulla strada dell’integrazione, sull’onda di quanto già fatto con la pandemia. Servono ora «la stessa prontezza e determinazione, lo stesso spirito di solidarietà». Cosa significhi quello che Draghi battezza come «federalismo pragmatico» lo illustra lui stesso: un ampliamento del fondo Sure messo in campo durante la pandemia per sostenere il mercato del lavoro; un fondo comune come quello che ha permesso i Pnrr nazionali, un nuovo Next Generation Eu; il tetto sul prezzo del gas, che servirebbe anche a diminuire il paradossale finanziamento europeo alla guerra di Putin; lo sganciamento del prezzo dell’energia elettrica da quello del gas, perché il costo delle rinnovabili «dalle quali otteniamo una parte consistente dell’energia», pur essendo rimasto molto basso viene invece equiparato a quello, quintuplicato in un anno, del gas.

Mario Draghi
La priorità è raggiungere quanto prima un cessate il fuoco per salvare vite e consentire interventi umanitari. E una tregua darebbe nuovo spazio ai negoziati

LA CRISI UCRAINA ha messo in risalto il nodo della difesa, che nella Ue è scoordinata, costosa e inefficiente: «Occorre costruire un coordinamento efficace tra i sistemi della difesa. La nostra spesa è circa tre volte quella della Russia ma si divide in 146 sistemi. Gli Usa ne hanno 34». Il premier italiano propone dunque una «conferenza per razionalizzare e ottimizzare gli investimenti». Solo che senza tempestività non c’è razionalizzazione che tenga: «Dobbiamo superare il principio dell’unanimità». Con 5 milioni e passa di profughi già arrivati nel Continente, il doppio di quanti già c’erano, bisogna anche lasciarsi alle spalle il Trattato di Dublino.

QUELLO DI DRAGHI non è e non vuole essere un discorso circoscritto al presente. Lo confessa senza mezze parole: «Il buon governo non è rispondere alle crisi del momento ma muoversi per anticipare quelle che verranno». Il traguardo, anch’esso conclamato, è una modifica profonda dei Trattati, delle regole, dunque della natura stessa dell’Unione. Ma è un orizzonte che la poco affollata platea oggi vede distante, molto meno urgente delle scadenze a breve, della posizione italiana ed europea nella crisi in corso. Il dibattito martella su quel punto. Draghi sa che in Italia circolano umori identici. I 5S, ormai quasi in guerra aperta come rivela il gelo tra il premier e gli europarlamentari di Conte, reclamano l’intervento di Draghi in aula sulla guerra, sulle armi all’Ucraina, su prospettive e obiettivi. Se si aggiungeranno altre richieste il premier non potrà evitare il confronto con un aula molto più dubbiosa di quanto non fosse il primo marzo scorso.

DUNQUE IL DISCORSO di Draghi sulla guerra è rivolto certamente a due interlocutori, il Parlamento europeo e la politica italiana, ma forse anche a un terzo, l’uomo di Mosca, Vladimir Putin. La posizione del premier italiano, e i suoi toni, sono sensibilmente diversi da quelli angloamericani. «Aiutare l’Ucraina vuol dire soprattutto lavorare per la pace. L’Europa può e deve avere un ruolo centrale nel favorire il dialogo. L’Italia è pronta a impegnarsi in prima linea per raggiungere una soluzione diplomatica». Questo risponderà Draghi anche a chi, nel Parlamento italiano, gli chiederà se l’obiettivo dell’invio delle armi è portare Putin alla trattativa o abbatterlo o ancora indebolirlo una volta per tutte come vorrebbero fare a Washington e Londra.

UN PASSAGGIO SOLO apparentemente ovvio indica però anche e soprattutto al Cremlino una condizione precisa, necessaria perché l’Europa possa svolgere un ruolo autonomo effettivo e spingere per una soluzione negoziata: «La nostra priorità è raggiungere quanto prima un cessate il fuoco per salvare vite e consentire interventi umanitari. Una tregua darebbe anche nuovo spazio ai negoziati». Sin qui la Ue non ha potuto muoversi in parte perché attendeva l’esito delle elezioni francesi, ma molto anche perché stretta tra la rigidità armata di Mosca e quella diplomatica di Washington. Perché possa fare la sua parte in modo indipendente ed efficace è necessario che arrivi un segnale da Mosca. Quel segnale può essere solo una tregua. Quanto il discorso di Draghi indichi una nuova prospettiva e quanto invece sia destinato a sfiorire nel magazzino dei sogni infranti lo si capirà forse il 9 maggio quando Macron terrà a Strasburgo il suo discorso sul futuro dell’Europa e soprattutto Putin dirà se l’«operazione speciale» può arrestarsi o se sarà guerra assoluta.