Mai come ora, dalla sua fondazione all’inizio degli Anni 90 per impulso decisivo di Giovanni Falcone, la Direzione nazionale antimafia (dal 2015 anche antiterrorismo) appare debole e circondata da sospetti. Il caso degli accessi abusivi ai database investigativi, le voci di dossieraggio, le parole del capo Giovanni Melillo e del procuratore di Perugia Raffaele Cantone, le prese di posizione al cianuro delle forze politiche: tutti elementi di un puzzle che si è scomposto, con il rischio (pesante) della perdita di fiducia verso un’istituzione che in oltre trent’anni ha rappresentato molto per la lotta alla criminalità organizzata. E così si arriva a oggi, alla «Giornata nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime delle mafie», con tanto di corteo di Libera a Roma (partenza alle 8 da piazza Esquilino), in un clima che appare sospeso, difficile da decifrare.

RESTANO i fatti, che comunque pesano un bel po’: gli accessi abusivi alle banche dati investigative da parte del finanziere Pasquale Striano sono decine di migliaia, solo in parte le informazioni raccolte sono finite sui giornali, il resto non si sa bene che fine ha fatto, e forse non si capirà mai. Lunedì il magistrato Antonio Laudati, superiore di Striano, non si è presentato davanti a Cantone per farsi interrogare. In compenso ha ampiamente fatto circolare sui giornali la sua versione della storia. E soprattutto ha tirato in ballo uno dei suoi superiori: l’ex capo della Dna Federico Cafiero de Raho, dicendo di aver sempre agito sotto il suo «pieno controllo». Ecco, de Raho adesso è senatore del M5s e siede pure in Commissione antimafia, con la destra (e i renziani) che vorrebbero estrometterlo, mentre i lavori dei parlamentari proseguono e sulla storiaccia di Perugia si stanno programmando decine di audizioni. Lui tace e lascia rispondere i suoi colleghi di partito, che lo difendono a spada tratta. C’è un altro nome, però, che Laudati ha scelto di non fare, ed è quello di un altro suo superiore: Giovanni Russo, procuratore aggiunto alla Dna fino a un anno fa, quando il governo Meloni l’ha nominato capo del Dap. Il tema è semplice, in fondo: i dossier si facevano (si fanno) davvero? E perché? C’è forse un complotto? Siamo tutti spiati?

SIN QUI, al di là delle considerazioni senza prove prima di Melillo («Striano non può aver agito da solo») e poi di Cantone (che ha citato non meglio precisati servizi stranieri), non ci sono elementi che lascino supporre intrighi particolari. C’è casomai il disvelamento di un metodo investigativo: la raccolta a strascico di informazioni non necessariamente rilevanti sotto un profilo penale ma comunque utili a ingrassare i fascicoli delle inchieste. In mezzo a tutto questo c’è la Dna, anche se tutti i coinvolti, in momenti diversi, hanno detto sempre la stessa cosa al riguardo: «Non va delegittimata».

OVVIAMENTE la questione è più complessa, la legittimità è un concetto relativo. Cantone, che in Antimafia si è intrattenuto per ore rilasciando dichiarazioni pubbliche a inchiesta aperta, ha ampiamente fatto intendere che quell’ufficio è un colabrodo. O almeno lo è stato fino all’estate del 2022, quando de Raho ha lasciato il posto a Melillo, il quale giura e spergiura di aver messo una toppa sopra ogni buco. Ma forse non è tanto una questione di problemi a cui rimediare. Forse è più una questione di prassi vecchie e nuove: la Dna come l’aveva disegnata Falcone non esiste più. Del resto neanche le mafie sono più quelle di trent’anni fa: la vulgata investigativa corrente dice che, come altre volte accaduto in passato, si sono inabissate e ora lavorano più nel mondo degli affari, tra conti cifrati e operazioni finanziarie. Si è detto e si è scritto già: l’arresto e la morte di Matteo Messina Denaro sono il capitolo finale di un certo tipo di mafia. Di un certo tipo di storia. Se ne apre un’altra, dunque. Certo non migliore.