INel tunnel in cui è sprofondato il Nicaragua non si scorge, per ora, alcuno spiraglio di luce. Dopo aver escluso il ricorso a elezioni anticipate come richiesto dall’opposizione, il presidente Ortega ha respinto anche l’idea di un referendum su tale quesito, definendola «senza senso», e insistendo, al contrario, sulla necessità di stabilire nuove condizioni per il dialogo, a cominciare da una riforma dei meccanismi elettorali in vista del voto del 2021. E mentre gli Stati Uniti minacciano di revocare i visti dei funzionari del Nicaragua coinvolti nelle violazioni dei diritti umani, appare sempre più difficile tracciare un quadro chiaro delle violenze. Se fin dall’inizio delle proteste – esplose il 18 aprile scorso contro una riforma della previdenza in linea con i dettami del Fmi – la repressione della polizia è stata brutale, anche tra i manifestanti c’è chi si è macchiato di atti non certo pacifici.

La guerra si combatte anche sulle cifre. Secondo i dati dell’Anpdh (Asociación Nicaragüense Pro Derechos Humanos), al 10 luglio le vittime degli scontri sarebbero 351, tra cui 306 civili, 28 paramilitari e 16 poliziotti. Mentre la Commissione dell’Assemblea nazionale creata per indagare sulle violenze (secondo l’opposizione sbilanciata a favore di Ortega) parla di 269 vittime, tra cui circa 65 poliziotti e simpatizzanti del governo, più altre 50 persone cadute sotto il fuoco incrociato di polizia e manifestanti (i quali si troverebbero dunque in possesso di armi) e altre ancora (di numero imprecisato) morte durante attacchi contro la polizia.

Opposte risultano anche le valutazioni sull’operato di vescovi e sacerdoti, i quali, chiamati a mediare nel conflitto, sarebbero, secondo i critici della coppia Ortega-Murillo, oggetto di una campagna di violenza e di intimidazione da parte del governo mentre, secondo i suoi sostenitori, risulterebbero attivamente coinvolti nella ribellione, quando non direttamente complici degli atti di vandalismo e violenza commessi nelle manifestazioni. Vescovi e sacerdoti che in ogni caso non una sola vera parola di denuncia sull’operato del governo hanno pronunciato prima del 18 aprile, in linea con il famigerato patto stretto da Ortega con il cardinale Obando y Bravo: né sull’autoritarismo della coppia presidenziale, né sulle politiche neoliberiste ed estrattiviste portate avanti in questi anni, e neppure sulla contestatissima concessione cinquantennale rilasciata ai cinesi per il faraonico progetto del Grande canale interoceanico, limitandosi a raccomandare una «prospettiva di sviluppo sostenibile» e a esprimere preoccupazione per le possibili conseguenze sulla popolazione coinvolta.

Ugualmente repentina è stata la conversione del Consejo Superior de la Empresa Privada (Cosep), che, dopo aver felicemente co-governato, a tutto vantaggio del capitale internazionale, con un presidente definito tuttora progressista da una parte della sinistra latinoamericana, si è spostato armi e bagagli all’opposizione, deciso a mettere il cappello su una sollevazione esplosa a causa di un malessere accumulatosi nel tempo che non ha né leader né un programma. E se lo scontro all’interno della sinistra latinoamericana sul Nicaragua prosegue senza esclusione di colpi, l’unico punto di contatto appare il giudizio sul ruolo – scontato – degli Stati Uniti, decisi a sfruttare, sostenere e finanziare le proteste al fine di recuperare il terreno perduto a vantaggio di un capitalismo cinese.