Dopo 19 giorni «bloccati» a Kyiv, lasciamo il Paese con amarezza
Il limite ignoto L'ibertà d'informazione: «Il nostro caso un precedente pericoloso»
Il limite ignoto L'ibertà d'informazione: «Il nostro caso un precedente pericoloso»
Ieri pomeriggio, dopo 19 giorni in attesa di spiegazioni ufficiali che non sono mai arrivate, abbiamo deciso di lasciare l’Ucraina. Era il 6 febbraio quando i nostri accrediti giornalistici sono stati sospesi dal ministero della Difesa di Kyiv. Da allora non abbiamo più potuto svolgere il nostro lavoro di reporter, e per ragioni di sicurezza abbiamo dovuto lasciare il Donbass alla volta di Kyiv. Abbiamo contattato più volte le autorità ucraine, che sono state sollecitate, oltre che dall’Ambasciata italiana, anche dall’Ordine dei giornalisti, dalla Fnsi e dalla nostra avvocata, Alessandra Ballerini. Ci avevano detto che avremmo dovuto sottoporci a un interrogatorio da parte dell’Sbu, i servizi di sicurezza di Kyiv. Per 19 giorni, come ci era stato espressamente richiesto, abbiamo atteso con pazienza questa convocazione, che tuttavia non c’è mai stata.
NEL FRATTEMPO le uniche voci che ci sono giunte, e che hanno iniziato a circolare abbondantemente proprio dal 6 febbraio, sono quelle che ci descrivevano come “propagandisti filorussi” e “collaboratori del nemico”. Si tratta di calunnie gravissime e pericolose, specie in zona di guerra. La nostra “colpa” – così ci è stato detto dalla Farnesina – sarebbe quella di aver raccontato il conflitto su entrambi i fronti a partire dal 2014, realizzando inchieste e reportage – peraltro spesso critici nei confronti dei russi – anche nelle repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk. Tanto sarebbe bastato a renderci automaticamente dei giornalisti “nemici”. Poco importa se per un anno intero siamo stati in prima fila a raccontare il dramma dell’invasione russa, a Odessa, a Kerson, a Kharkiv, nel Donbass. Per Kyiv non abbiamo comunque il diritto di lavorare. Il 21 febbraio – stando a quanto ci è stato riferito dall’Ambasciata italiana – le autorità ucraine hanno persino messo il veto sulla nostra partecipazione alla conferenza stampa di Giorgia Meloni e Volodymyr Zelensky. Eppure, la lista dei giornalisti italiani che avrebbero potuto prendere parte all’evento era stata compilata dai nostri diplomatici, i quali ci avevano riferito che non era necessario alcun accredito militare.
CHI HA DECISO di tenerci fuori? E perché? È stato questo episodio, in particolare, a farci capire che la nostra attesa era ormai diventata inutile: non ci sarebbe mai stato nessun interrogatorio, era chiaro. Restare avrebbe significato soltanto accumulare nuove frustrazioni, e onestamente cominciavamo ad averne abbastanza. Perciò abbiamo deciso di andarcene. Spostandoci man mano verso ovest, nel giro degli ultimi giorni, abbiamo visto il Paese mutar volto: dalle devastazioni del Donbass siamo passati alla apparente calma di Kyiv, dove oggi la gente è tornata a mangiare nei ristoranti e a fare shopping lungo i grandi viali del centro. Infine Lviv, la più europea tra le città ucraine: da qui la guerra appare come un concetto estremamente lontano, da esorcizzare a suon di aperitivi e concerti, quando scende la sera all’ombra delle antiche cattedrali.
Ora tutto questo è ormai alle nostre spalle. Lasciamo l’Ucraina con grande amarezza, dietro consiglio della nostra Ambasciata. Prima e dopo di noi, a loro insaputa, altri giornalisti italiani sono stati inseriti in questa «lista di proscrizione». I nomi a noi noti sono quelli di Salvatore Garzillo e Lorenzo Giroffi, entrambi respinti mentre cercavano di entrare nel Paese con l’unico intento di raccontare il dramma della guerra, ma l’elenco, a quanto pare, sarebbe molto più lungo.
SE PASSERÀ QUESTA linea – secondo la quale chi ha cercato di lavorare liberamente, senza fare il tifo, ma semplicemente raccontando i fatti, debba essere considerato una minaccia per l’Ucraina – allora il rischio è che il livello di libertà di stampa in questo conflitto si abbassi sensibilmente. Tutti i giornalisti stranieri avranno davanti agli occhi il nostro precedente, e chi probabilmente avrà la meglio – se si procederà in questo senso – saranno i propagandisti e gli uffici stampa militari.
È PER EVITARE TALE prospettiva – nella speranza che le autorità ucraine tornassero sui loro passi – che abbiamo deciso di resistere per questi 19 giorni. Oggi, alla luce di ciò che è successo, restare non avrebbe più senso. Speriamo che tutto questo sia comunque servito a lanciare un messaggio forte, contro ogni censura e contro ogni bavaglio. Perché questa guerra riguarda tutti noi, in Italia e in Europa. È qualcosa di terribilmente vicino e terribilmente importante, e merita di essere raccontata da voci libere e oneste. Oggi tanti colleghi – anche molto più validi di noi – lavorano in Ucraina senza farsi condizionare in alcun modo dalla propaganda. Li conosciamo, li abbiamo visti sul campo. Oggi è così, ma domani cosa succederà?
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