Si chiama Vinegar Tom il gatto della «Beldam» West, una delle «streghe di Manningtree» che nel romanzo di A. K. Blakemore dedicato alle loro vicende, appena uscito in italiano per i tipi di Fazi (pp. 336, euro 18,50, traduzione di Velia Februari), morirà impiccata nel 1645; anch’esso vittima innocente, verrà ridotto a «una massa inanimata di ossa e di pelliccia fulva sanguinolenta» dal capitano di giustizia, quando questi accompagna Matthew Hopkins, «gentiluomo e studioso di Cambridge» da poco arrivato in città per gestirvi una locanda, e autoproclamato Inquisitore, a cercare nella sua casupola ai margini del paese la vedova sospettata di commerci con il demonio. Fuori si accalcano gli uomini del villaggio, «le facce bagnate che rifulgono come penny sporchi alla luce del fuoco», mentre Rebecca West spiega che la madre non è in casa, e trema davanti al sorriso «intimo e particolare» di Hopkins. Vorrebbe strapparglielo dalla faccia e sollevarlo in alto nel pugno dove «penzolerebbe scarlatto come la seta di una gitana».

SEMPRE VINEGAR TOM, nome spesso attribuito agli animali famigli delle streghe, si chiama il gatto di Joan Noakes, come la Beldam West vedova e con una giovane figlia, nel dramma di Caryl Churchill che gli si intitola – Gatto Vinagro in italiano (in Teatro V, Editoria & Spettacolo, 2018). Anche qui si racconta, scrive Churchill in una breve introduzione a quel testo del 1976, non una storia di possessioni e malefici ma una storia di «miseria, umiliazione e pregiudizi», ambientata nel periodo di profonde trasformazioni che a metà Seicento vede l’Inghilterra insanguinata da una guerra civile, tra «sconvolgimenti sociali, cambiamenti di classe, crescente professionalizzazione, e grandi disagi dei poveri». In quel contesto, aggiunge Churchill, «le donne accusate di stregoneria erano spesso quelle ai margini della società, anziane, povere, nubili, sessualmente non convenzionali». Ellen, sapiente guaritrice che vive sola e conosce le erbe; Alice Noakes, ragazza madre dai liberi amori; sua madre Joan che impreca contro la vicina che le nega un po’ di lievito; Susan che stremata dalle gravidanze abortisce sottraendosi ai suoi doveri riproduttivi.

Sono tipologie simili a quelle che ritroviamo in Le streghe di Manningtree: la «vecchia fattucchiera» Elizabeth Clarke, con le piccole mani simili a zampe, sdentata e senza una gamba, esperta di «canti in lingue, amuleti e pruriti»; la sfrontata e beona Beldam West, che dice che «Strega è l’offesa che affibbiano a chiunque faccia succedere le cose, a chiunque porti avanti la storia»; Helen Clark, «morbida, leggiadra, armoniosa e piacevolmente volgare, così da dare l’impressione che gran parte di lei desideri essere baciata»; Margaret Moone, anche lei vedova, che nel viso pallido «ricorda l’astro celeste di cui porta il nome» – e sua figlia Judith, con la bocca «di un rosso sconvolgente», che implica Rebecca in un rituale di divinazione, e che per salvarsi denuncerà la madre.

DONNE CHE VEDONO troppo o parlano troppo, vedove ridotte alla fame che fastidiosamente chiedono l’elemosina e mandano improperi a chi gliela rifiuta, donne senza un uomo accanto che le controlli, e che dunque rappresentano una minaccia per l’ordine sociale e l’autorità maschile. «Quando le donne pensano da sole, pensano il male», dice a Rebecca il cacciatore di streghe Hopkins.
Corpi devianti non conformati a un modello di femminilità e a comportamenti sociali più congeniali al nuovo ordine che si va costruendo, nell’analisi della transizione da feudalesimo a capitalismo condotta da Silvia Federici in Calibano e la strega (Mimesis, 2015), e poi ripresa in Caccia alle streghe, guerra alle donne (Nero, 2020), le vittime della persecuzione che tra Cinque e Seicento mandò a morte centinaia di donne sono al centro di una «accumulazione originaria» che tenga conto del lavoro riproduttivo delle donne, naturalizzato nella sua gratuità, in un processo di modernizzazione che richiede la disintegrazione delle comunità rurali con la perdita della solidarietà che le teneva unite. Mentre con il protestantesimo si diffondono un’etica del lavoro e della responsabilità individuale, vengono meno anche le tradizionali pratiche di mutualismo; un disfacimento che emerge chiaramente sia in Gatto Vinagro che in Le streghe di Manningtree.

C’è nel romanzo di Blakemore un momento in cui forse si potrebbe tornare indietro, quando alcuni tra gli uomini che assistono allo scontro tra Hopkins e la Beldam West si chiedono se sia opportuno «turbare la tregua cittadina, a lungo combattuta, ancorché precaria» per cui da tempo quelle donne derelitte erano state relegate ai margini. Tacciono, confusamente premonendo lo svolgersi crudele degli eventi, e Rebecca, che la madre sta reclamando venga liberata, su di esso a sua volta riflette: «A tutti piace scherzare, ma nessuno desidera davvero vedere una donna impiccata, la sottana intrisa di urina e il sacco di tela che schiuma del sangue che sgorga dalla gola. È uno spettacolo orribile. Non più divertente. O sì?»

MA IL CORSO INTRAPRESO da Hopkins, assistito dallo yeoman John Stearne e da solerti aiutanti, uomini e donne sotto lo stimolo di paura e risentimenti, non si può fermare; si accompagna a loro fungendo da scrivano il «dolce John Edes», come lo chiama Rebecca che se ne è invaghita. Lui la ricambia e vorrebbe salvarla – ma poi fuggirà nascondendosi dopo un goffo amplesso nel bosco, e alla fine la accuserà davanti ai giudici di Chelmsford, come lei accuserà la madre per evitare la forca. Tutto comincia in sordina: dapprima sono piccole cose, visioni da ubriaco, qualche capo di bestiame che si ammala, il riemergere di antichi livori; ma sono tempi duri, tempi di guerra saccheggi e carestia, carichi di tensioni sociali e politiche, pervasi da una religiosità austera e insieme aperta al fanatismo. «

«È un’epoca sottosopra. Se l’aringa e la trota emergessero dall’acqua per spiccare il volo come uccelli non si sorprenderebbe nessuno, perché certamente il giorno del giudizio di Nostro Signore è vicino, e in quel giorno grandine e fuoco si mescoleranno con il sangue e le locuste si riverseranno nei campi con corazze di ferro e facce di uomini».

IL RACCONTO FONDE sapientemente vicende reali e verosimili, intervallando inoltre alla voce narrante estratti dai verbali dei processi; Hopkins, Edes, Rebecca e le altre donne accusate sono personaggi storicamente documentati, come lo sono le procedure d’accusa e le impiccagioni, ma non è così per quanto riguarda il sentimento che lega Edes e la giovane West, la violenta fine di Hopkins, il casuale reincontrarsi di Rebecca e Judith Moone sulla nave che le porta verso una nuova vita in America.
Il linguaggio è un ricco impasto pieno di suggestioni, che senza risultare alieno ricrea ritmi secenteschi e rimane insieme contemporaneo – complessivamente reso con eleganza dalla traduzione di Velia Februari, sebbene a volte colpiscano scelte troppo ricercate a fronte di termini più colloquiali e quotidiani dell’originale inglese.

Da poeta qual è (questo è il suo primo romanzo, e il secondo, The Glutton, è appena uscito in Gran Bretagna), Blakemore sa intrecciare di lirismo le sue vivide immagini di paesaggi rurali e marini, e allo stesso tempo far vedere in tutta la loro crudezza i corpi disfatti delle vecchie, evocare gli odori della loro carne avvizzita e delle misere stanze in cui vivono: le «gengive cadaveriche» della vecchia Clarke e il lezzo di chiuso del suo tugurio; il piscio della Beldam West che «di mattina è giallo tuorlo, dopo che ha bevuto, e la puzza di lievito invade la stanza»; «l’effluvio eterogeneo di acqua alle rose, sangue raggrumato, sudore e cenere» che si diffonde in chiesa mentre le donne benestanti delle prime file, e quelle povere relegate in fondo, si fanno vento con i fazzoletti. Anche i perseguitori sono tratteggiati con tocchi efficaci – Hopkins «alto e di un nero biblico», Stearne «con l’ampio sorriso della ricchezza» – ma il romanzo appartiene alle streghe, ed è la loro storia e la loro voce che parla al nostro presente.