Appena la bufera di neve cessa, dalle scalette delle cantine escono degli uomini più o meno anziani che si affrettano a spalare via i fiocchi freschi. Poi le signore, a passo incerto, si avviano verso il vialone ghiacciato. È l’ora degli aiuti umanitari a Siversk, nel Donetsk ucraino.

LA CITTÀ fino a quel momento sembrava deserta. L’artiglieria ucraina spara senza sosta, obici e qualche batteria più che altro. I boati riempiono l’aria come a ricordare che non si tratta di un luogo abbandonato dall’uomo. Ma ci sono due tipi di uomini qui: i militari e i civili. Un ragazzo con la giacca mimetica aperta e degli occhialetti da sole a specchio cammina spavaldo da un seminterrato all’altro, pensiamo voglia controllare i documenti ma si limita a un cenno di saluto da duro.

Poi ci ripensa, torna indietro e ci fa segno di seguirlo. Dietro una svolta un’intera sezione di una palazzina popolare è collassata, sembra quasi risucchiata dalla terra, e ogni tanto una folata di vento più forte fa precipitare ancora qualche maceria al suolo. «Sono di là». Si riferisce ai soldati russi. «Presto proveranno a venire anche a Siversk».
A POCA DI DISTANZA da Soledar, da poco conquistata dalle truppe di Mosca, la cittadina di Siversk ha una posizione strategica importante per il controllo delle pianure verso est e, inoltre, costituisce una spina nel fianco per i progetti russi d’avanzata. Stiamo ritornando lentamente a quel fronte frastagliato che avevamo descritto mesi fa nel sud. Capita che un esercito avanzi ma che l’altro occupi posizioni ben al di là delle sue retrovie.

Un confine irregolare e mutevole come un liquido su una superficie inclinata che a volte oscilla da un lato e a volte dall’altro. Come ieri, quando il Cremlino aveva annunciato una penetrazione di ben 2 km (un’enormità nel Donbass di questi giorni) oltre le linee ucraine. Poi però gli ucraini riescono a rompere lo sbarramento a nord-ovest di Soledar e la situazione ritorna stabile. Per quanto potranno reggere le truppe di Kiev a questo ritmo?
IL RAGAZZO sorride come se fosse un attore, «siamo qui, li aspettiamo» e poi saluta. Nel frattempo il furgone nero slitta all’ultima curva e si impantana per un po’, il giovane autista impreca e il capomissione esce con la faccia serena e il cellulare pronto per riprendere i civili che si accalcano di fronte al portellone posteriore. Oggi c’è pane, qualche scatoletta di latta e vestiti di seconda mano.

Una signora molto anziana che sfida la gravità con la schiena curva si affanna sulla scatola dei vestiti cercando di alzarla a tutti i costi. La aiutiamo e lei ci indica dove portarla,di fronte all’ingresso di uno scantinato. Lì arrivano altre signore che aprono maglioni e giacche come fossero al mercato e le misurano con gli occhi. Ogni tanto si mettono qualche indumento sotto braccio e nel frattempo chiacchierano concitate. La signora curva se ne va senza prendere niente, le altre le urlano qualcosa ma lei non risponde e sparisce dietro una porta a poche decine di metri. In meno di cinque minuti anche tutti gli altri ritornano alle cantine.
IN FILA, a volte scambiando qualche parola, il capo chino per fronteggiare la bufera che nel frattempo ha ripreso a ululare, gli anziani di Siversk si dirigono alle porte di ferro che di fianco ai cortili segnano il confine tra il mondo dei militari e il loro. Sottoterra, giorno e notte, da mesi, si attende. «Che vita ti pare questa?» risponde una signora arrabbiata alle nostre domande sulla situazione in città. Senza luce, gas, il più delle volte senz’acqua, si sopravvive in piccole comunità. Ogni palazzo ha la sua, riunita nello spazio angusto e senza luce di quelle che assomigliano più a tane che a case.

Da un paio di mesi si è iniziato anche a fare il fuoco all’interno. È una necessità, le temperature di notte toccano anche i -10° e altrimenti si morirebbe assiderati. Il fuoco deve essere tenuto sempre acceso, per quanto questa frase assomigli a quelle di un libro sulla preistoria, non c’è scampo. E per questo di giorno, appena i bombardamenti cessano per un po’ e quando il meteo lo permette, chi ha forze esce e si mette a raccogliere ogni pezzo di legna che trova. Dai rami secchi alle macerie delle case bombardate, dagli arredi dei negozi alle panche del parco, ogni piccolo ciocco è caricato sui carrellini con le ruote, legato e portato di fronte all’ingresso della cantina dove poi la stessa persona o un altro lo taglia in pezzi più piccoli con accetta e sega.
INTANTO DAI PIANI terra dei palazzi si alza un fumo bianchissimo che fuoriesce da cappe arrabattate, ricavate da vecchie lamiere o da tubi vari fatti passare nei muri rotti a mano (si capisce dal fatto che le crepe sono piene di stracci e pezzi di cose per tappare gli spifferi). Il rischio che la cantina si riempia di monossido di carbonio e si muoia soffocati o intossicati è molto alto, ma va corso per evitare l’assideramento. Anche le operazioni di taglio non durano molto, appena l’artiglieria ucraina cessa di sparare inizia a rispondere quella russa e allora bisogna tornare sottoterra e ricomincia l’attesa.