Al Beccaria è il tempo del silenzio. «Ora è tutto più tranquillo, che vuole, nei gruppi principali la metà sono stati trasferiti, sono rimasti in dieci laddove erano in venti. Quelli che hanno pochi mesi di pena residua dormono, non fanno molto altro. Adesso però spero solo di riuscire a convincere gli altri tre evasi a tornare indietro, in modo da evitare l’aggravamento di pena». Don Gino Rigoldi, da cinquant’anni cappellano del carcere minorile milanese, e fondatore di una fondazione che si occupa soprattutto di minori, sembra solo amareggiato. È preoccupato per quei ragazzi che conosce uno a uno: i tre detenuti che ancora sono latitanti, e tutti gli altri che sono rimati o tornati dentro, nel carcere minorile di Milano o trasferiti al Sud chissà dove.

Don Rigoldi – foto Ansa

Martedì è tornato in cella il quarto evaso. Era semplicemente in una piazza ad ascoltare musica con altri giovani: un atteggiamento molto adolescenziale. Qual è lo scopo di riportarlo in carcere, in quel tipo di carcere?

Lo scopo? Beh nessuno, ha commesso un reato e ha avuto una condanna, ma per il resto… È un ragazzino modesto, mica un criminale incallito. Bisogna tenere presente una cosa: a Milano sono arrivati ultimamente più di mille ragazzi minori stranieri non accompagnati. In qualche centinaio non hanno trovato posto negli alloggi comunali e sono rimasti a vagabondare, senza casa né lavoro. Questi, uno dopo l’altro, arrivano tutti in carcere, ovviamente. Cosa devono fare? Il ragazzetto evaso e rintracciato martedì aveva commesso qualche furtarello, poi ha deciso di andare a sentire musica in piazza. Quindi non c’è stato un drammatico progetto di evasione, non hanno dietro una rete criminale che li sostiene. Adesso uno dopo l’altro chiederanno di tornare indietro, perché non sanno dove andare. La famiglia, quando c’è – perché molti non ce l’hanno – spinge perché ritornino. Al Beccaria non abbiamo mica grandi criminali.

Le destre chiedono una controriforma sul carcere minorile: limite d’età a 21 anni; dopo in cella con gli adulti, secondo loro. Lei che ha dedicato la vita ai ragazzi di tante generazioni, ci spiega quando finisce l’adolescenza al giorno d’oggi?

È un’adolescenza molto, molto lunga. E lo sanno tutti. Anche perché si diventa grandi non perché passano i giorni ma perché qualcuno discute con te, esalta le tue competenze, ti insegna ciò che serve per dare a te stesso anche un nome un po’ più preciso… L’adolescente ha sempre l’impressione di non valere, di essere inadeguato, di non essere considerato a sufficienza. Mi pare che al giorno d’oggi i giovani debbano diventare grandi da soli, o con i social che è anche peggio. È assolutamente demenziale pensare che a 18 anni, o a 21, possano andare nel circuito penale per adulti. Lo sarebbe perfino per coloro che compiono il reato appena maggiorenni, ma addirittura pensare di trasferire un ragazzo che ha commesso un reato da minorenne – 16 o 17 anni, questa è l’età della maggior parte dei giovani che finiscono in un carcere minorile – prima che completi il trattamento iniziato con tanta fatica in un Ipm, è davvero una grande sciocchezza. Allora tanto vale chiuderli, questi istituti. Non avrebbe alcun senso tentare un progetto di vita con loro, peraltro in un Paese dove gli alloggi per l’autonomia sono pochi, il lavoro non c’è e le comunità chiudono.

Il ministro Nordio dice che affronterà la questione della devianza giovanile con un tavolo interministeriale. Quale ministero dovrebbe fare di più, secondo lei?

Quello dell’istruzione per esempio. Se vogliamo occuparci dei giovani dobbiamo andare dove stanno, è lì che dobbiamo mettere qualità. Dopo è troppo tardi. Sono tanti i ragazzi oggi con problemi psicologici e anche psichiatrici. E dunque bisogna mettere attenzione anche sulla salute mentale.

In che modo?

Intanto a livello universitario, facendo sì che la specializzazione di Neuropsichiatria infantile non abbia i numeri risicati che ha adesso. Noi abbiamo avuto un neuropsichiatra infantile per venti anni e con lui, che aveva passione e competenza, i casi psichiatrici erano crollati. Adesso noi abbiamo neuropsichiatri ma non infantili, e non è la stessa cosa. Poi bisognerebbe riuscire ad avere comunità terapeutiche molto miste, integrate: un po’ dentro e un po’ fuori. Come quella di un mio amico che mette i ragazzi problematici continuamente a contatto – con partite di pallone e altro – con coetanei del quartiere. In questo modo, mentre vengono trattati, i ragazzi problematici iniziano ad abituarsi ad una normalità che non conoscono. La classica clinica messa in collina dove tutti sono vestiti di bianco e somministrano gocce non va bene per un adolescente.

Un concetto che dovrebbe valere anche per le carceri, o no?

Tanto più per un minorile. Vede, uno dei problemi più scottanti in questo campo è che le comunità stanno chiudendo perché non riescono a “tenere botta” a questo tipo di ragazzi che arrivano, perché fanno fatica a trovare educatori. C’è bisogno di ricambi, ma non persone qualunque: c’è bisogno di personale esperto e preparato, che abbia competenze e passione. Oggettivamente, abbiamo operatori appena laureati ma le persone che riescano ad avere autorevolezza e sappiano gestire questo tipo di ragazzi sono molto rare.

Cosa manca: i muscoli o la capacità psicologica?

Manca l’empatia. E quando manca, la relazione viene sostituita dal regolamento. E se c’è una cosa che viene presa come una sfida da affrontare, da parte di un adolescente, è il regolamento. Un conto è avere una relazione nella quale si discute, si litiga, ci si dà anche uno schiaffo e poi ci si abbraccia, e un conto è usare il regolamento. Che poi è un problema che abbiamo anche al Beccaria: lì chi sta più con i ragazzi sono gli agenti di polizia penitenziaria. Quando sono arrivato 50 anni fa, i padri di famiglia erano gli agenti di 40/50 anni. E non c’era dubbio che fossero dei punti di riferimento. Oggi abbiamo dei capigruppo di 23/25 anni, che si spaventano e non sanno come affrontare certe situazioni. E poi rimangono molto poco, c’è un grande turn over. Cosicché ogni volta bisogna ricominciare da capo e non si riesce a stabilire alcune relazione significativa.

È quello che avviene a livello governativo, dai rave alle baby gang. Alla devianza o esuberanza  giovanile si risponde con la sola repressione. Senile. È d’accordo?

Sì, si, ci ho pensato anche io l’altro giorno quando ho risentito del daspo ai ragazzini di San Siro. Ma come si fa a impedire loro di andare a piazza Selinunte? Ma perché non vanno a vedere come don Claudio Burgio, che è il sacerdote che sta con me al Beccaria, con tre locali ha trasformato certe baby gang in ragazzini che giocano con lui a pallone. Ma a chi vengono in mente certe pensate? Non mi sembrano idee così brillanti.