La cultura capitalistica ci ha abituato al mito dell’individuo, all’eroe che raggiunge il successo grazie alla forza di idee innovative e azioni tumultuose. È così anche il mondo dell’arte, costellato da dèi e semidei. A loro si dedicano mostre che raccontano di genialità e idee visionarie, di traumi risolti attraverso la creazione di opere o esistenze da rockstar.

Ogni deviazione da questi schemi presenta un rischio commerciale, perciò c’è una rassegna su Andy Warhol ogni quarto d’ora e si opta per monografiche su Van Gogh, Frida Kahlo o Caravaggio piuttosto che su fatti e temi più difficili da ridurre in biglietti e cataloghi.

Ovviamente sto a mia volta semplificando; la reiterazione continua degli stessi nomi ha ragioni ben più complesse che hanno a che fare con i media, il gusto, la cultura e l’incultura del pubblico e via di seguito. In ogni caso ci sono, qualche volta, anche esposizioni che destrutturano alla radice questi schemi, esibendo ricerche importanti e novità.

È sicuramente il caso di Le «invenzioni di tante opere», Domenico Fontana (1543-1607) e i suoi cantieri, alla Pinacoteca Züst di Rancate fino al 19 febbraio, a cura di Nicola Navone, Letizia Tedeschi e Patrizia Tosini (accompagnata da un volume con lo stesso titolo, edito dall’Archivio del Moderno e da Officina Libraria).

Fontana nasce a Melide, nell’attuale Cantone Ticino, nel 1543. La sua carriera si svolge quindi tra la seconda metà del Cinquecento e i primissimi anni del Seicento. Erano appena morti Parmigianino e Rosso e di lì a poco altri campioni del Manierismo come Giulio Romano, Perin del Vaga e Gerolamo Genga avrebbero lasciato questo mondo; Michelangelo è al lavoro nella cappella Paolina, Primaticcio è a Fontainebleau, Vasari sta girando la penisola e stanno per cominciare le carriere di alcuni dei protagonisti della Praga magica di Rodolfo II.

Intanto nei piccoli paesi sulle sponde del Ceresio si vive di edilizia esportando lavoro, marmi e pietre dalle cave del territorio nelle città che stanno crescendo. Si va a Genova, Roma, Torino, in Austria, in Baviera; si cresce imparando in casa, da qualche parente, e quasi subito nei cantieri, il mestiere del muratore, del «picapietra», dello stuccatore.

Chi è più dotato d’ingegno o avrà più fortuna sfrutterà le conoscenze dei materiali, degli strumenti e delle dinamiche di cantiere per mettere su imprese allargate, imparando anche a disegnare e calcolare.

Nessuno, in questa ramificazione di iniziative, è un individuo a sé stante. Nessuno può produrre nulla senza appoggiarsi al lavoro e alle capacità degli altri. Se mai, si può aspirare a coordinare questi piccoli eserciti di professionisti come direttori d’orchestra.

L’approccio a Domenico Fontana messo in campo alla Züst è perciò fondamentalmente quello della microstoria: un’attenzione che non si rivolge solamente all’architetto che ha diretto i cantieri più importanti della Roma di Sisto V e poi del vicereame di Napoli, ma anche alle varie maestranze che hanno animato le fabbriche con i loro apporti e il loro bagaglio d’esperienze. Si tracciano quindi le parentele, i legami e le variabili di cantiere per far emergere le strategie che l’impresario inventa o impara man mano a gestire. Ed è qua che Fontana si dimostra forte, sbaragliando i colleghi.

Ferraù Fenzoni, Cristo sulla Croce, Firenze, Uffizi

Da quello che sappiamo, Domenico inizia come stuccatore, ma è intraprendente, e a San Luigi dei Francesi, dove si è procacciato un lavoro da muratore, finirà per diventare capomastro e infine architetto della chiesa. Non gli mancava – come ricorda il suo primo biografo romano, Giovanni Baglione – «la prattica della fabrica», verosimilmente sperimentata già da giovanissimo.

Negli anni settanta si guadagna quindi la fiducia di un porporato dopo l’altro, tra cui il cardinale Felice Peretti, che nel 1585 diventerà papa Sisto V. In apertura di pontificato Fontana è perciò impegnato nella cappella Sistina in Santa Maria Maggiore come muratore e impresario: gestisce maestranze diverse, che significa tecniche, materiali, tempi differenti.

Qualche volta le collaborazioni durano a lungo, come quella con il pittore Cesare Nebbia o con il fonditore Bastiano Torregiani. Tutte le scelte premiano l’efficienza e la rapidità esecutiva pretesa dalla committenza: quello che conta è il risultato d’insieme, corale, senza stonature né smanie soliste. Il ruolo di coordinamento dell’architetto e del suo stretto e fidato entourage – in cui è presente anche il fratello Giovanni – è perciò decisivo.

Nelle grandi imprese successive Fontana finisce per diventare un’autorità egemonica, riuscendo in alcuni casi ad avere l’esclusiva gestione economica dei fondi.

Non sarebbero state altrimenti possibili le imponenti e velocissime risistemazioni urbane volute da Sisto V nei luoghi rappresentativi del potere religioso e politico di Roma. I grandi lavori del Laterano con la trasformazione del Patriarchìo, cioè l’antica sede apostolica lateranense, con la ricollocazione della Scala Santa e l’allestimento dell’intero apparato decorativo sono un esempio che si studia bene alla Züst.

Pur nell’omologazione imposta dagli organizzatori dell’impresa e nella divisione degli impegni, emergono gli umori eclettici di artisti come Paul Bril, esperto di vedute, o Ferraù Fenzoni, inventore di molte delle figure più complesse e in pose scorciate che popolano gli affreschi della Scala Santa: bastano un paio di bellissimi disegni (in prestito dagli Uffizi) e l’Estasi di San Francesco dal Thyssen-Bornemisza di Madrid a mostrarne le doti.

Come si espone tutto questo? Come si può, in una mostra, raccontare degli sforzi progettuali, degli sbancamenti, delle ricostruzioni, delle strategie operative, dei perfezionamenti tecnici, di tutto ciò che in pochi anni ha cambiato il volto della città eterna preparandola alla nuova fase costruttiva barocca?

L’allestimento è costellato da filmati e schermi interattivi che accompagnano gli oggetti esposti, che ampliano la narrazione (una «storia di storie», come giustamente la definisce Letizia Tedeschi), che mostrano intelligentemente luoghi e cronologie. È un esempio virtuoso dell’uso del digitale.

Alla fine ci ricordiamo Fontana come «Cavaliere della Guglia». Una sorta di eroe, un genio indiscusso dell’ingegneria perché responsabile della ricollocazione di quattro possenti obelischi antichi nella nuova Roma cristianissima di Sisto V Peretti. Spostare e innalzare quei giganteschi monoliti comportò uno sforzo inusitato reso spettacolo di piazza, con un po’ di anticipo sulle grandi scenografie barocche. In quelle operazioni titaniche c’era tanto del pragmatismo del cantiere quanto della rapida evoluzione tecnologica e delle sperimentazioni che hanno caratterizzato il tardo Manierismo, e che si ricordano di rado.

Dopo la morte di papa Peretti, con le glorie e le esperienze accumulate, Domenico approda a Napoli, dove progetta il palazzo dei viceré. Le fabbriche partenopee sono complicate da regole più ferree e da un’autonomia decisionale e finanziaria più limitata, ma la fedeltà al disegno è comunque garantita dall’impegno del figlio Giulio Cesare: i legami di sangue continuano a essere importanti.

Nel vicereame si aprono anche altri cantieri, nuove collaborazioni, fino alla morte dell’architetto, intervenuta il 28 giugno 1607. E si ritorna all’inizio: dietro l’individuo Fontana si sono scoperti sistemi rodati per orchestrare una moltitudine di professionisti. Sistemi che, in fondo, si possono replicare anche dopo la sua morte.

Così, con un atto notarile (esposto, appunto, all’inizio della mostra di Rancate), già nel 1589 Domenico aveva dato facoltà al nipote Carlo Maderno e ai suoi discendenti di utilizzare nel loro blasone araldico l’obelisco in campo ceruleo, simbolo della sua impresa più gloriosa. È, in fondo, una primitiva operazione di marketing. Garantiva la continuità del marchio, in vista di altri e ancora più grandiosi impegni edilizi per sé e per i propri eredi.