Visioni

«Dogman», il rischio di esporsi al mondo

«Dogman», il rischio di esporsi al mondoMarcello Forte in una scena di «Dogman» – copyright Archimede S.r.l.- Le Pacte S.a.S.

Cannes 71 Il film di Matteo Garrone, in concorso, ambientato in un paesaggio dark da periferia pasoliniana. Ma la vicenda del Canaro della Magliana a cui si ispira, viene filtrata nello sguardo del regista che scruta il sentimento del presente

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 17 maggio 2018

Marcello ha gli occhi scuri, il corpo esile, una dolcezza speciale. «Ammore» ripete all’enorme e non proprio amichevole quattro zampe, probabilmente da combattimento, che non vuole farsi lavare. Delicato lo avvicina, piano piano lo calma senza cercare di domarlo: l’acqua nemica diventa una goduria e pure l’aria calda del phon. Marcello ha un salone di toelettatura per cani, li lava, li pettina, qualche volta partecipa alle gare. Gli vuole bene agli animali, e pure agli umani, anche se non è un santo: è uno che vive un po’ ai margini,una figlia adorata, la moglie che lo ha lasciato, gli amici, la sala giochi, un po’ di coca, qualche traffico, il pranzo all’osteria, la partita di pallone, i rituali di una comunità. Poi succede che all’improvviso compare Simoncino (Edoardo Pesce), violento, prepotente, che non accetta rifiuti. È stato in galera, il primo che cerca è proprio Marcello, l’unico disposto a aiutarlo, a coprire i casini che fa, a dargli una mano quando tutti pensano solo a come liberarsene. Per il quartiere è un incubo, per Marcello una strana amicizia. Ma a che punto si può arrivare nelle relazioni, quanto concedere a un’ambiguità scivolosa, quale è il limite che si deve innalzare?

Dogman, con cui Matteo Garrone ritorna in concorso a Cannes (secondo titolo italiano, nelle sale da oggi) rispetto al Racconto dei racconti sembra guardare a film del regista precedenti come L’imbalsamatore – in realtà se devo trovare un corrispettivo nella filmografia del regista romano penso piuttosto a Ospiti – Gomorra, Reality nella scelta di una immagine con una maggiore cifra di «realtà» rispetto al fantasy delle crudeli fiabe. Però non c’è mai nulla di «realista» nelle immagini di Garrone, così Marcello – una nuova maschera nel teatro del regista romano, incarnata con potenza da Marcello Forte – è come gli altri un personaggio fuori dal tempo, immerso in un paesaggio archetipico, quasi una periferia pasoliniana trasfigurato in Edward Hopper (nella fotografia di Nicolaj Bruel), attraversato dalle pulsioni che sono la materia dell’essere umano.

E di Il racconto dei racconti,  Dogman appare quasi il contrappunto, se nel primo erano infatti le figure del femminile il centro, madre, figlia, sposa, amante in un corpo a corpo verso un diverso orizzonte di scelta, qui è il maschile a essere esplorato, personalissimo, letterario, l’uomo e la sua astrazione concreta – i suoi possibili detour, la complicità, lo scontro l’attrazione – perché interroga uno stare al mondo. E la cronaca – la vicenda del «canaro» che uccise un suo ex-complice chiudendolo nelle gabbie dove teneva i cani per lavarli diventa un pretesto, sfuma in una distanza narrativa che è l’universo dell’artista coi suoi fantasmi, le sue ossessioni, il suo sguardo sempre dichiarato che scruta il sentimento del presente nella sua messinscena.

Perché è questo il cinema di Garrone, un paesaggio emozionale e un campo di battaglia, che nel tempo ha «sperimentato» possibili contorni cercando la realtà nella sua rappresentazione.

È quasi una tragedia classica Dogman, nonostante i momenti di umorismo, una tragedia di dei o di uomini che si credono tali, di un «paradiso» perduto, di umiliazioni, di illusioni, di una possibile (o impossibile) sopravvivenza. Marcello è felice col suo poco, la casa scassata, la cena divisa col cagnolino, Alida, la sua bimba, la sola figura femminile presente in questo orizzonte, con cui si immerge sotto al mare. Si sente come in una famiglia in quella periferia, che potrebbe essere Roma o un qualsiasi quartiere italiano del sud, di case popolari e ragazzi di vita un po’ invecchiati che si ritagliano uno spazio tra le contraddizioni.

Simoncino però è una furia, pretende sempre di più. Droga, soldi, furti negli appartamenti, rapine, botte. Marcello è sempre lì, sempre accanto a lui, sembra tenerci al suo rispetto, forse con la presunzione (o il desiderio) che con lui è diverso, che lui può accarezzarlo come i «suoi» cani quando ringhiano e non vogliono farsi toccare. Da cosa nasce questa relazione? È solo una variante dell’arcaica modalità vittima-carnefice o prova a svelare qualcos’altro? Ospiti raccontava di un giovane fotografo della borghesia romana che prende in casa due ragazzi albanesi per aiutarli ma presto questo rapporto diviene impossibile. Dogman – che Garrone ha scritto insieme a Ugo Chiti e Massimo Gaudioso, montato col complice di sempre Marco Spoletini – è più «estremo»nel punto di arrivo, sono passati anche molti anni (Ospiti era del 1998) però la partenza è in fondo lo stesso: aspettative e rischi, un equilibrio scivoloso.

C’è nella tensione tra Marcello e Simoncino qualcosa che ricorda il rapporto tra l’artista e il mondo, la stessa scommessa che divora e chiede: a che punto si è disposti a arrivare? A che punto esporre la filigrana della propria vita? Cosa significa confrontarsi con le vite altrui cercandone la dimensione universale? Vale per chi come Garrone non si ferma alla semplice apparenza del mondo ma si rivolge in ogni opera alla sua interpretazione, interroga invece che dare risposte assumendone il rischio fino in fondo. Può essere doloroso, sicuramente è complicato, può nascondere insidie e tranelli ma questo è il senso profondo del fare cinema.

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