Come nella sua tradizione, per la ventesima volta Doclisboa inquadra un punto cieco di cruciale importanza nel mondo presente e lo investe con un vitale fascio di luce cinematografica che viene dal passato e punta al futuro. «La questione coloniale», prodotta nella cornice della Stagione di cooperazione Francia – Portogallo, è solo l’apice più esplicito di un programma vasto e complesso, attraversato forse mai come ora da diverse linee di un unico discorso sul rapporto tra espressione e politica, oggi come ieri, per proiettarsi in avanti.

Da Loznitsa (Mr. Landsbergis) ad Arbid (Je donne à mon coeur une médaille pour t’avoir oublié), da Bennigs (The United States of America) a Herzog (The Fire Within: A Requiem for Katia and Maurice Krafft), da Dovzhenko (Zemlya) a Dmytro Sukholytkyy-Sobchuk (Liturgy of Anti Tank Obstacles), un interrogativo politico è lanciato dalle immagini al mondo e di rimando dal mondo alle immagini attraversando le questioni della forma, gli immaginari del desiderio, la violenza del potere.
Nel programma non esclusivamente retrospettivo, sul cinema e le colonie la curatrice Amarante Abramovici – il colloquio con la quale si trova riportato dopo questo breve testo introduttivo – costruisce un nuovo atlante dell’Africa affiorata alla luce del cinema all’alba della sua tentata indipendenza dal giogo coloniale, disegnando piccoli arcipelaghi di un discorso complesso e stratificato lungo poco meno di venti programmi, ognuno mosso da un diverso interrogativo.

In esergo al testo di introduzione a «La questione coloniale», Abramovici cita Amilcar Cabral, tra i principali ideologi e artefici della liberazione della Guinea-Bissau e di Capoverde dal dominio coloniale portoghese, che individua il ruolo cruciale dei fenomeni e dei movimenti culturali come elementi fondamentali nei processi di lotta tra colonizzati e colonizzatori. A Cabral e alla sua Guinea è dedicato il primo dei programmi della retrospettiva: un dittico che mette uno accanto all’altro il film pamphlet O Regresso de Amilcar Cabral – del gruppo formato da Djalma Martins Fettermann, Flora Gomes, José Bolama Cubumba, Josefina Lopes Crato, Sana na N’Hada – nel quale nel 1976, a distanza di tre anni dall’assassinio del leader rivoluzionario guineano, si ricostruisce, racconta e analizza la macchina retorica e di rappresentazione del neonato stato indipendente che celebra in pompa magna la morte del più celebre dei suoi padri (ucciso da un membro del suo stesso partito); e Mortu nega, Flora Gomes, che a una decina d’anni dall’indipendenza del suo paese (di nuovo la Guinea) rimette in scena attraverso gli strumenti e lo stile del cinema di finzione la guerra contro il Portogallo nel tentativo di ottenere una testimonianza impossibile di quel passato prossimo ormai già divenuto quasi inattingibile; a esso sembra fare eco sul fronte algerino il nuovissimo Les Harkis (2022) del franco-marocco-algerino Philippe Faucon, ricostruzione drammatizzata dell’abbandono da parte della Francia dei «collaborazionisti» arruolati tra gli algerini a supporto dei militari francesi, e destinati dunque al massacro da parte dei connazionali nell’Algeria ormai liberata. Nel programma, che copre un arco temporale di più di settant’anni, dal 1950 al 2022, si passa dalla Guinea e Capoverde all’Angola e al Mozambico, dal Senegal all’Algeria, dal Niger al Brasile e al Congo, senza trascurare un piccolo spazio per il controcampo su Francia (nel secondo programma della retrospettiva si fronteggiano Afrique sur Seine del duo Sarr-Soumarou Vieyra e La noire de… del maestro senegalese Sembène) e Portogallo (in Catembe, di Faria De Almeida, al ritratto della vita quotidiana in Mozambico si contrappone un’improvvisata inchiesta sulle colonie condotta sulle strade di Lisbona). E così al leggendario Moi, un noire, sottratto alla cornice del canone, risponde nello stesso programma Cabascabo, 1969, diretto da Oumarou Ganda, lo stesso protagonista del film di Rouch, che sceglie un film a soggetto per raccontare lo sradicamento, lo sfruttamento e l’indottrinamento subito da un veterano nigeriano reduce dalla guerra coloniale in Indocina.

In «La questione coloniale» si trovano confrontati e apparentati cinema vecchio (molte e preziose le occasioni di recuperare visioni rare come il sorprendente Rostov-Luanda, 1997, del mauritano Abderrhamane Sissako) e cinema nuovo (sorprendente la rilettura di alcuni dei dispositivi e dei temi del documentario classico in 7 Cortes de cablo no Congo, produzione brasiliana diretta da G. Melo, L. Bezerra, P. Rossidocumentario) documentario e film a soggetto, film di propaganda e film saggio in una esplorazione che scopre il valore testimoniale nei film dei classici europei – Rouch, Marret, Sergent – e la vitalità, l’unicità, la potenza delle forme nei cimenti dei neofiti militanti africani – Ahmed Lallem, Flora Gomes, lo stesso Ganda. E se da una parte in film come Algérie, année zero, di Sergent e Marceline Loridan-Ivens si verifica la lucidità ancora efficiente, il nitore dello sguardo, il rigore perentorio di un cinema capace di raccontare, ordinare, analizzare, nei combat film (Nossa terra) di Mario Marret, sodale di Marker e tra i pochi filmmaker a prendere parte attiva anche alla fase militare dei movimenti di liberazione africani, l’obiettivo trova il suo posto e la pellicola il suo ritmo precipitando nei fatti e nell’urgenza di trascriverne una cronaca, costruirne, veicolarne, preservarne una testimonianza. Ma anche quando la cinepresa non si specchia nel fucile (Carnaval da Vitoria di Antonio Ole), il mondo trascritto da questi cineasti troppo spesso misconosciuti appare impregnato dal tragico sentimento di un’apocalisse già avvenuta e che può ripetersi infinite volte e al contempo dalla forza invincibile di un popolo – il popolo africano – che pur tra mille ostacoli e tormenti non smette mai lottare e di cercare la libertà. L’approfondimentosulle scelte del programma ci viene dalla curatrice Amarante Abramovici..

Vista l’ampiezza, la complessità e la delicatezza della materia, come hai lavorato per arrivare al programma che vediamo oggi?
La prima fase è sempre esplorativa. Prima di tutto getto una rete molto ampia, vedo molte cose diverse. Le prime questioni di fondo: primo, restringere o no la selezione ai film prodotti durante il periodo coloniale e nel tempo immediatamente successivo? E poi: stringere sui soli film europei dei paesi coloniali? E ancora: quale parte destinare ai «film coloniali», i film di propaganda promossi dai poteri coloniali per vendere l’idea delle colonie e della colonizzazione? Ho visto molti film differenti e, anche per ragioni politiche personali, ho esplorato i film militanti dei movimenti di solidarietà. Ho letto molto Fanon: vengo dalla cultura francese, oltre che da quella portoghese, il mio primo riferimento è stato Sartre. È diventato allora cruciale tornare al dialogo tra Sarte e Fanon. Questo è diventato il motore del programma: come trasferire il potere dall’Europa all’Africa. Una delle direttrici interne della retrospettiva è fornire un contesto storico. Volevo anche scoprire come è iniziato il cinema africano liberato. Per questo il programma doveva superare i contorni del periodo coloniale strettamente inteso: perché quando il cinema africano è cominciato, negli anni Sessanta e Settanta, nei diversi paesi liberati, ci è voluto tempo perché i primi film fossero pronti. La prima pellicola girata in Mozambico da un regista mozambicano con una troupe e un cast a prevalenza mozambicana è del 1987. La ricerca dei primi gesti di consapevolezza nella costruzione della propria identità nei nuovi Paesi africani è il vero centro di questa retrospettiva.

Il colonialismo non è stato solo una cornice politica: è un sistema. Magari oggi lo chiamiamo in altri modi – imperialismo, capitalismo – ma il colonialismo esiste ancora ed è molto presente. La lotta continua (ndr. in italiano).

Guardando al programma della retrospettiva nel suo insieme penso sia evidente che si tratti di una selezione che combatte l’idea del canone, un programma in cui i nomi celebri, i maestri, gli autori sono scelti quasi solo in quanto agenti del cambiamento, mentre anche i filmmaker meno esperti sono trattati come testimoni immediatamente dotati dell’autorevolezza e della lucidità degli autori.
Molti di questi film sono esordi, primi esperimenti, cimenti di qualcuno che impara a fare cinema nello stesso momento in cui impara la libertà, impara a impugnare un’arma, a ripararsi dalle bombe. Al contempo, come dici, ci sono i maestri come Marret, Rouch o Jean-Pierre Sergent, ma sono tutti colti in un momento critico. Per esempio, nel caso di Jean Rouch si tratta di mostrare il momento in cui mette in questione tutto il suo lavoro fronteggiando la realtà ed essendo costretto a confrontarsi con le persone che riprende in Africa. Quel confronto è cruciale, gli fa cambiare più volte il suo approccio al cinema. In Moi, un noire è sfidato dalle persone che filma: Oumaru Ganda qualche anno dopo farà un film, Cabascabo, che è poi la seconda versione, o la versione africana, per dir così, della stessa storia che c’è nel film di Rouch, la sua storia. In Makwayela, quando Rouch va in Mozambico, lo si vede insegnare ai giovani a girare il loro film, ma lo si vede anche imparare che cosa significa essere lì in solidarietà e fare cinema per promuovere l’utopia che è in circolazione nel Paese in quel momento.

Al principio trovare il modo di accostare documentario e film a soggetto è stato un problema. Poi però è stato il programma a insegnarmi la via. Ovviamente prima che venga l’indipendenza di un Paese tutto il cinema è nelle mani del colonizzatore, magari qualche filmmaker militante viene in visita dalla Francia o dalla Germania, ma ci sono pochissimi film davvero africani, quasi nessuno a dire il vero. Il cinema africano inizia a esistere dopo. La finzione allora diventa il documentario, diventa l’unica forma possibile di documentario: se vuoi una forma di film che riesca a registrare i corpi, le memorie, le espressioni, i movimenti, i gesti della Storia che hai appena vissuto devi ricorrere alla finzione.

Una questione molto rilevante e ingombrante e decisiva sarà stata, immagino, la reperibilità e l’accessibilità delle copie dei film. Quanto e come questo genere di difficoltà ha influenzato il corso del lavoro nella costruzione del programma?

Abbiamo contattato archivi, cineteche e quando possibile anche filmmaker. La maggior difficoltà è che solo molto raramente i film sono in Africa: la maggior parte degli archivi che abbiamo contattato non aveva granché, in molti casi non sanno neppure bene cosa sia conservato nel loro patrimonio. Secondo un percorso perverso, sei costretto a tornare in Europa per ricostruire la storia del cinema africano. Alcune istituzioni conducono un lavoro interessante: l’Arsenale a Berlino, la Cineteca di Bologna, la Cinematheque di Tolosa, quella di Bretagna. Altre istituzioni più «classiche» – l’archivio portoghese, l’archivio nazionale francese – hanno un approccio a questo periodo molto più selettivo. Quindi direi: si è costretti a cercare l’Africa in Europa, ma l’Europa tende a dare priorità all’Europa. Molti film restano indisponibili alla visione, molti altri indisponibili per la programmazione. E poi in Africa le rivoluzioni in molti casi non hanno avuto successo, si può forse dire che in nessun caso hanno avuto davvero successo; la politica è cambiata, e così se oggi chiedi in Mozambico o altrove spesso ricevi rifiuti, ci sono molti film che non si vuole far vedere. La Guinea per esempio ha voltato le spalle a questa parte della sua storia recente. Se non ci fossero i filmmaker e altri soggetti interessati a salvare il salvabile, non rimarrebbe nulla.
La ricerca non s’interrompe mai, la ricerca non finisce: ci sono ancora così tanti film mancanti, così tanti pezzi perduti da ritrovare. È anche una corsa contro il tempo: una generazione è già perduta, un’altra sta invecchiando rapidamente.

Tra le molte questioni che scandiscono l’orizzonte di qualsiasi discorso sul colonialismo, quella del punto di vista è forse tra le più cruciali.
Certo. Io sono francese e portoghese, sono bianca e in un certo modo privilegiata: le buone intenzioni non sono sufficienti. Anche essere una programmatrice è in un certo senso una posizione di potere, perlomeno simbolico. Quel che posso fare io è provare a cedere il mio potere all’altro perché l’altro possa rendermi quanto più possibile irrilevante e impotente. Per me la cosa più importante di questo programma è mostrare questi movimenti, questa parte della Storia che continua nel presente, questi gesti di cinema, storici ma anche contemporanei, dei registi africani nell’atto di prendersi il potere, nel momento dell’affermazione della loro utopia e del sogno, che era allora e che ancora è, in alcuni casi, oggi.
Ecco, il mondo non cambierà se non rinunciamo al nostro potere. Rinunciare al potere nel lavoro di programmazione di una retrospettiva è anche rinunciare a essere assertivi. È mostrare elementi contraddittori che contraddicono quello che pensi tu sull’argomento.

La censura è certamente un’altra voce di questa sorta di piccolo atlante del colonialismo. Nel programma è inserito «Catembe» e mi chiedo se la scelta sia dovuta all’eccezionalità dell’intreccio delle vicende tortuose che hanno riguardato il film.
In Francia hai Afrique sur Seine di Pauline Soumarou Vieyra e Mamadou Sarr, ci sono state anche incarcerazioni, ma in Portogallo la situazione era più grave, la censura era assoluta: i film più politicizzati che si potevano trovare erano quelli che trattavano in qualche modo il colonialismo degli altri paesi, non del Portogallo. In Acto de primavera di de Oliveira alla fine si vede un pezzo di un cinegiornale sulla guerra in Vietnam e naturalmente serve a parlare di tutte le guerre coloniali, ma di quelle che riguardavano il Portogallo non si poteva parlare. Catembe è un caso molto interessante, è una sorta di film su commissione per il Ministero d’Oltremare, sulla città che allora si chiamava Lourenço Marques, oggi Maputo. Il film fu censurato una prima volta. Sembra che fosse perché il film mostrava una ragazza mulatta e a quel tempo la cosa non era accettabile. Questo primo taglio credo sia stato di una ventina di minuti, perdendo del tutto il personaggio principale. Faria De Almeida, il regista, allora decise di rimontare il film trasformandolo in un documentario. Questa volta, invece dei tagli, arrivò un divieto totale alla proiezione. Il film non ha niente di esplicitamente politico. Poi, quando la dittatura è finita, nelle sale si proiettavano Ultimo tango a Parigi, i film di Ejzenstejn.

Catembe neppure allora ha trovato un suo posto sugli schermi perché non era un film di liberazione. È diventato così il film portoghese più censurato di sempre. Nella retrospettiva mostriamo anche alcuni dei materiali tagliati.