Cechov no, perché è un autore russo. Cechov sì, perché è il più grande autore russo. Cechov no, perché è noioso e parlano troppo. Cechov sì, perché non l’ho mai fatto e vorrei provarci almeno una volta. Cechov no, perché ora non posso dire la battuta «Voglio andare a Mosca». Siamo circa alla metà di Non tre sorelle, lo spettacolo di Enrico Baraldi «liberamente non ispirato a un’opera di Anton Cechov», e il suo nucleo caldo esplode sulla scena del Fabbrichino, a Prato, felicemente disturbante (lo produce il Teatro Metastasio). Armata di una mazza, sulle note di Georgia in my mind, un’attrice si dedica alla rabbiosa distruzione delle tazze da tè di porcellana disposte sul grande tavolo. Il ritratto dello scrittore viene oltraggiato da un’altra attrice che gli acceca gli occhi con una bomboletta di vernice. Non c’è dialettica che tenga. Questo spettacolo non s’ha da fare.

BISOGNA fare un passo indietro. All’inizio ci sono sulla scena cinque attrici, tutte vestite in lunghi abiti bianchi. Le note barocche di un clavicembalo a sottolineare la quiete che accompagna l’inizio dell’azione, l’apparecchiatura della tavola con tazze e teiere. Ma il prologo alla messinscena cechoviana finisce qui. Da sotto gli abiti eleganti spuntano vestiti più quotidiani e tocca a una delle attrici spiegare l’antefatto dello spettacolo. Nel 2020 avevano iniziato con il regista le prove per un adattamento di Tre sorelle, ma la sopraggiunta pandemia aveva costretto a rinviare il debutto. Quando quest’anno erano riprese le prove, alle due interpreti Susanna Acchiardi e Alice Conti, si sono unite tre giovanissime attrici ucraine, appena arrivate nel nostro paese. Ed eccole presentarsi a loro volta, Anfisa Lazebna, Yuliia Mykhalchuk e Nataliia Mykhalchuk, vent’anni o giù di lì e una padronanza della scena davvero sorprendente.
Raccontano la sera del 23 febbraio, stavano recitando in un teatro di Kiev. Durante l’intervallo si erano ascoltate voci allarmate. Ma no, non è possibile pensare la guerra. Che invece è arrivata e ha molti padri. Così il russo è diventato la lingua del nemico e quella battuta, «A Mosca, a Mosca, a Mosca», gli appare indicibile. Mettere in scena Cechov non è opportuno, spiegano. Se ora dovessero farlo, nel loro paese non la prenderebbero bene. E intanto ci fanno notare che Taganrog, la città natale dello scrittore, si trova a cinquanta chilometri dal confine con l’Ucraina, dall’altra parte c’è il teatro di Mariupol distrutto dai bombardamenti.

SUCCEDE che alla fine il copione di Tre sorelle viene introdotto in una di quelle macchinette che servono per distruggere i documenti. Ed è un atto sconvolgente, anche per l’indifferenza burocratica con cui viene eseguito, richiama alla mente i roghi dei libri celebrati in piazza dalle camicie brune naziste. Non finisce così, per fortuna. Quelle parole ridotte in coriandoli vengono travasate in una teatralissima macchina del vento che le spara in alto in una fitta nevicata. Tre sorelle, lo spettacolo che qui questa sera non si è potuto fare, ci ritorna così, nella forma di una poetica evocazione metereologica. E ci piace pensare che è come se volesse dirci che quelle parole sono indistruttibili.