Diventare tutore, un percorso aperto a tutti
Immigrazione Chi sono i tutori civici volontari introdotti dalla legge Zampa? Le storie dei bresciani che stanno per accogliere nella propria vita un minore straniero non accompagnato
Immigrazione Chi sono i tutori civici volontari introdotti dalla legge Zampa? Le storie dei bresciani che stanno per accogliere nella propria vita un minore straniero non accompagnato
«Mille, mille, mille chilometri, dal Senegal al Mali, dal Mali al Burkina Faso, Niger, dal Niger alla Libia, dalla Libia a Taranto». Djiby Konte è arrivato in Italia tre anni fa dopo un viaggio a tappe durato due mesi. Lo incontriamo in un bar vicino alla stazione di Bergamo, parla un buon italiano intervallato da qualche parola francese che non riesce a tradurre. In città condivide un appartamento con tre amici e lavoricchia ogni tanto, quando trova qualcosa da fare. Pur sapendo che non riceverà nessun compenso, a ottobre ha deciso di frequentare il corso per diventare tutore di un minore straniero non accompagnato. Con la legge Zampa (vedi box) può farlo chiunque sia interessato a rappresentare legalmente il minore migrante, aiutandolo nella crescita. «Non sto cercando, come si dice, soldi. L’ho fatto perché sono bambini, sono il futuro degli umani» spiega Djiby con fermezza. «Quando noi siamo arrivati qui, gli italiani mi hanno dato da mangiare.
Quando lavoro, lavoro per l’Italia. Quando un bambino arriva, noi tutti dobbiamo cercare di aiutarlo. Nessuno sa questo bambino domani cosa diventerà. I bambini sono gli angeli, dobbiamo proteggerli, così è la mia filosofia». Parla di responsabilità come se avesse tutti i bambini del mondo sulle proprie spalle, e presto ci si dimentica che è solo un giovane immigrato di 28 anni. In Senegal faceva il maestro, collaborando con diverse organizzazioni internazionali: «Usaid, World Vision, Unicef, Caritas Senegal» elenca, mentre beve a piccoli sorsi il caffè. Alla fine, quando chiediamo se non gli dispiaccia aver lasciato la sua terra, ci guarda stranito: «Certo, non avevo mai lasciato il Senegal prima di tre anni fa». Pausa. «Sono un intellettuale, non avevo bisogno di partire. Ma questa è un’altra storia» e nasconde con pudore chissà quali problemi passati dietro una sonora risata.
DA MIGRANTE A TUTORE: per la legge Zampa possono diventarlo tutti i cittadini italiani, dell’Unione europea o, come Djiby, residenti con regolare permesso di soggiorno. In leggero ritardo rispetto alle altre regioni, lo scorso luglio la regione Lombardia ha pubblicato l’avviso per la selezione, la formazione e l’iscrizione negli elenchi dei tutori volontari. Nei due mesi seguenti «hanno presentato domanda circa 282 candidati» spiega al telefono Francesca Sulis, dagli uffici del Garante per l’infanzia e l’adolescenza. I corsi di formazione sono partiti a gennaio ma «durante l’anno ce ne saranno altri, ad oggi siamo già arrivati a 400/500 richieste». Si è concluso invece la prima settimana di febbraio il percorso parallelo di Djiby e dagli altri 35 aspiranti tutori gestito dalla fondazione Museke di Brescia, rivolto principalmente a operatori del terzo settore. Toccherà a loro, in un secondo momento, sensibilizzare la cittadinanza. È il caso di Elsa Pasotti.
Entrando a casa di Elsa l’occhio cade subito sulla piccola bandiera della pace, attaccata all’ingresso come una sorta di festoso benvenuto. Il suo impegno con i minori inizia nel 1993, quando a Rezzato (provincia di Brescia) fonda la onlus “Bambine e bambini del mondo” per ospitare gli orfani di Chernobyl: «Venivano tutti da orfanotrofi della Russia, dalla regione di Tula». Dopo 22 anni e 3.500 esperienze di accoglienza, grazie alle tante famiglie disponibili, Elsa inizia a lavorare per le donne immigrate residenti sul territorio, aprendo un centro di aggregazione. Oggi, per «far girare le buone idee», organizza incontri sui minori stranieri non accompagnati e ha chiamato alcune delle famiglie che si erano già impegnate con i bambini russi, da coinvolgere come tutori. «Questa è un’esperienza completamente diversa, i ragazzi sono adolescenti» spiega con realismo. «Non credo saranno relazioni facili, anzi penso difficilissime, ma non ci sono altre strade. Credo che solo nella relazione umana di amicizia e di fiducia il ragazzo possa sbloccarsi». La voce di Elsa si impenna solo quando il tema diventa personale: «Mi piacerebbe tantissimo fare il tutore, compatibilmente con i miei impegni da nonna, ma non subito. Fare volontariato mi fa stare bene, non mi sento impotente di fronte ad ogni telegiornale e mi dico “insomma io quel poco che posso fare cerco di farlo”».
I DATI DEL MINISTERO dell’Interno confermano le preoccupazioni di Elsa: in Italia il numero dei minori stranieri non accompagnati è in aumento. A novembre 2017, dei 18.508 presenti nel nostro Paese, 1.155 erano in Lombardia, terza regione italiana per numero di minori non accompagnati. I servizi sociali del comune di Brescia ne hanno censiti 94 durante lo scorso anno: la maggior parte di loro viene dall’Albania, dalla Nigeria, dall’Egitto e dalla Costa d’Avorio. Di questi l’87% sono maschi, nella maggior parte dei casi prossimi ai diciotto anni.
Era poco più che maggiorenne Marie Rose Nintunze, quando nel 2000 è arrivata in Italia dal Burundi per studiare: «Avevo lo zio prete, lui mi ha cercato un’università e sono stata accolta da una famiglia italiana a Salerno che mi ha trattato come una figlia. Sono rimasta da loro quasi quattro anni, anche adesso siamo in contatto». Marie Rose ci aspetta fuori dalla fondazione dove lavora, deve andare a prendere il figlio all’asilo nido. La noti subito. È alta ed elegante, anche quando si imbarazza a raccontare di sé e ride divertita. Non dimostra quarant’anni. Oltre a un figlio suo di 22 mesi ha in affido una ragazza quindicenne, Leocadie: «Ho iniziato a fare l’interprete in ospedale a Brescia e l’ho conosciuta lì, aveva un linfoma di Burkitt, un tumore – e si passa la mano su metà viso – era tutta rovinata. Allora ho chiesto ai genitori se potevo tenerla in affido fino alla guarigione. Ormai sono sette anni che è con noi». Avendo già una figlia in affido, Marie Rose è preparata a fare il tutore: «Quei ragazzi hanno subito tantissime brutte cose, tu puoi almeno dare una mano. Le storie le ho sentite, cose inimmaginabili, quando passano dalla Libia gli fanno di tutto, di tutto. Mi piacerebbe instaurare un rapporto, guadagnare la loro fiducia. Farli uscire a chiacchierare». Tira fuori il telefono, vuole farmi vedere la foto di Leocadie: il tumore è guarito e non c’è nessuna traccia sul bel viso sorridente. Chi ti conosce cosa ne pensa della tua scelta di fare da tutore, le chiediamo. Ride, scimmiottando le reazioni: «Ma sei matta! Non ne hai abbastanza?».
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