«Slava Ukraini?» urla una voce alle nostre spalle, ma non si alza il coro guerriero di risposta. Sembra quasi una domanda nella desolazione di Ocheretyne, circa 30 km da Avdiivka, poche case tra due cave e una lunga distesa di campi verso est che ora fa paura. Guardiamo i due soldati un po’ confusi anche noi. Dove sono i reparti pronti alla difesa. Perché non si sente rispondere al fuoco? E, soprattutto, perché i soldati corrono tra una casa sicura e l’altra come se fossero sotto controllo costante del nemico? C’è una sola risposta a queste e a molte altre domande che sorvolano minacciose il fronte est: Avdiivka.

QUALCUNO già la definisce «la Caporetto ucraina» ma il paragone non è appropriato per ora. I soldati non abbandonano le posizioni, la linea del fronte non si è spezzata e la catena di comando ancora funziona. Qualcosa tuttavia si è rotto. Lo percepisci nella cupezza del morale dei soldati, nei loro sguardi stanchi e nelle frasi amare. I bulldozer scavano nuovi fossati per le trincee nei campi, i tir scaricano i pesanti denti di drago (i prismi di cemento che servono da dissuasori) e le batterie tra le file di alberi sono in posizione. In strada le auto dei militari sono ferme solo se c’è un riparo a nasconderle e i militari stessi stanno attenti a non attardarsi in luoghi troppo esposti. Nessuno lo dice, ma il rischio che i russi tentino di avanzare ancora c’è e stavolta il terreno è sfavorevole, una lunga pianura senza nascondigli naturali e senza possibilità di copertura aerea.

La sconfitta di Avdiivka è stata dura come è duro l’impatto con la realtà quando un progetto sul quale avevamo puntato tutto fallisce. Nel caso dell’Ucraina quel progetto si chiamava controffensiva e ci sono voluti mesi ai vertici politici per riconoscere che fosse naufragato. Il conseguente cambio al vertice nelle forze armate è stato troppo improvviso per imprimere una vera svolta alla strategia bellica dei difensori. Zaluzhny diceva: «Prepariamoci a dover contenere la spinta del nemico e fortifichiamo le nostre posizioni il più possibile». Zelensky a quanto pare non era d’accordo – «ci vuole qualcuno al vertice dell’esercito che creda nella vittoria» – e imputava a Zaluzhny un atteggiamento controproducente per la causa. Il nuovo capo, Oleksander Syrskyi, si è trovato tra le mani una miccia che l’ha bruciato quasi subito. L’ordine di ritirata è stato dato tardi, la vita dei soldati ancora una volta è stata valutata all’ultimo posto e il tentativo di invertire la rotta non ha fatto che accentuare la disfatta.

UNA ROCCAFORTE è tale fino a quando tiene, se cade diventa un cumulo di macerie nelle mani del nemico. E tra quelle macerie ci sono migliaia di morti che ancora aspettano di essere seppelliti. Poco più indietro, nelle retrovie russe, ora si trovano anche i prigionieri freschi del 3° battaglione d’assalto autonomo, quello che un tempo si chiamava «Azov». Chiunque in ucraina ne parla quasi come dei superuomini. Le accuse anteriori al 24 febbraio 2022, quando l’Azov era il Reggimento autonomo operazioni speciali, e quelle precedenti ancora quando tutti, in tutta Europa, lo chiamavano il «battaglione dei neonazisti» non le menziona più nessuno. La guerra cancella i distinguo, si sa. Sul municipio di Kiev troneggia la scritta «Libertà per i difensori dell’Azovstal», le strade sono piene di adesivi e in ogni città c’è un manifesto che richiama le loro gesta. Mariupol, Bakhmut e ora la prigionia. Caduti in trappola per la decisione del Comando di inviarli a salvare una situazione già insalvabile. E infatti la brigata è stata decimata. Tra morti, feriti e prigionieri è ora solo un simulacro di ciò che era prima.

QUANTI UOMINI siano stati catturati non è noto, Kiev ovviamente non lo dice, ma diverse indiscrezioni parlano di molte centinaia, forse più di mille. «Erano tra i migliori soldati del nostro esercito: esperti, preparati… li hanno sacrificati per niente» dice un soldato a Kramatorsk dando voce a un pensiero comune tra i militari ucraini in Donbass. Ma nel capoluogo si può ancora ragionare, per il momento. A Ocheretyne i soldati li vedi sparire sottoterra con casse di munizioni e poi sfrecciare subito via nelle auto, non rispondono ai cenni di saluto e nel migliore dei casi ti sorpassano in fretta scuotendo appena il capo, altrimenti ti indicano la direzione opposta. Il dito punta sempre verso ovest e il messaggio è chiaro: andatevene.

Ma non per insofferenza, ma perché non è tempo di fermarsi a parlare. Il momento è nero, come il cielo gravido di nuvole che incombe sull’imponente impianto di estrazione mineraria. «Sai come fanno alcuni soldati quando vedono i droni e non hanno posti dove nascondersi?» spiega un militare a un collega «si sdraiano a terra con il fucile tra le gambe, aspettano immobili e alzano l’arma quando pensano di averlo a tiro». Solo che il drone generalmente è più veloce.

L’IMMAGINE di un soldato spappolato da una granata è oscena, ma serve a rendere per lo meno il sentore di cosa sia quella paura. I droni hanno cambiato tutto, è vero. Come hanno fatto i russi in così poco tempo ad acquisire una tale superiorità aerea sulla breve distanza non è facile spiegarselo. Arrivano a flottiglie, non solo di vecchi droni kamikaze iraniani, ma dei nuovi Fpv (pilotati con i visori personali), dei grandi quadcopters (a quattro eliche) e seminano il terrore. Senti il ronzio come di uno sciame di insetti giganti. Su tutte le posizioni di avanguardia del fronte domina la paranoia. «Guarda lì… corri». Un punto nero sopra gli alberi ci spaventa e ci sparpagliamo come ci hanno ripetuto più volte cercando riparo sotto le chiome. Pensi che la scritta “press” sia una specie di armatura in più, ma poi anche tu ti chiedi: «E se fosse troppo tardi?».