Disegnare spazi e utopie abitabili
Cultura

Disegnare spazi e utopie abitabili

Taller Capital, «Hondonada» – Rafael Gamo

GEOGRAFIE URBANE Parlano Loreta Castro Reguera e José Pablo Ambrosi, a Venezia per WaVe. Incontro con gli animatori di Taller Capital, tra gli studi di architettura più noti di Città del Messico. Il rapporto tra acqua e città e il ruolo di stimolo alle politiche pubbliche, al centro della loro attività. «La Quebradora era un luogo abbandonato nel quartiere più popoloso della capitale. Oggi lì è attivo un servizio di acqua potabile in uno spazio che la comunità può vivere»

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 9 luglio 2022

A guardare una metropoli sconfinata come Città del Messico, nessuno la assocerebbe a una città d’acqua. Eppure Tenochtitlán, sulla cui distruzione l’attuale capitale è nata, risale al 1325, quasi sette secoli fa ed era proprio al centro di un grande lago. L’acqua saliva e scendeva, mettendo a prova gli aztechi. E anche se gli spagnoli interrarono i canali, l’acqua ha continuato a maledire la città. «Con le forti piogge la città non ha smesso di inondarsi, nonostante le opere di ingegneria idraulica, complice quel terreno così impermeabile con cui è stata coperta. Allo stesso tempo, un abitante su quattro non ha accesso giornaliero all’acqua potabile: un paradosso», raccontano Loreta Castro Reguera e José Pablo Ambrosi, meglio conosciuti come Taller Capital, uno degli studi di architettura più interessanti dell’America Latina.

Proprio il rapporto tra acqua e città è il focus del loro lavoro. Anzi: sono convinti che l’architettura possa dispiegare politiche pubbliche integrali, là dove invece le singole competenze arrivano a coprire solo una parte del problema. Per loro, «la materia prima è la città, lo strumento-chiave è lo spazio pubblico, e il valore aggiunto è la ricchezza dello spazio e il potenziale dei materiali».
Uno dei progetti più famosi che hanno realizzato i Taller Capital è la Quebradora, nel quartiere di Iztapalapa a Città del Messico, che si è conquistato nel 2018 il premio internazionale Lafarge Holcim. In questi dieci anni di lavoro, i due architetti hanno dato vita ad altri quattro progetti in Messico affrontando sempre la relazione conflittuale tra acqua e città. Li incontriamo a Venezia, tra i protagonisti di WaVe, il tradizionale ciclo di worskhop internazionali promossi dall’Università IUAV, curati quest’anno da Andrea Iorio.

Come vi siete avvicinati al tema dell’acqua e della città attraverso l’architettura?
Siamo partiti da una ricerca internazionale, condotta nel 2010, con l’Università UNAM: siamo stati in otto città in giro per il mondo per capire la loro relazione con l’acqua. E quando siamo rientrati abbiamo predisposto il progetto pilota per Itzapalapa, avviato nel 2013 e inaugurato l’anno scorso, in ritardo per via della pandemia. La Quebradora era un luogo abbandonato, utilizzato come immondezzaio o rifugio per delinquenti in fuga, dentro un quartiere, il più popoloso della capitale, con grandi problemi sociali. Oggi la Quebradora riesce a captare l’acqua piovana, filtrare quella residuale, attivare un servizio di acqua potabile, e tutto all’interno di uno spazio pubblico che la comunità può vivere. Oggi Itzapalapa attira molti progetti e sta cambiando velocemente: la Quebradora ha funzionato da catalizzatore per una incredibile trasformazione urbana.

E come è stato il rapporto con le istituzioni locali?
Dal 2013 si sono succeduti tre sindaci, ognuno con un mandato di tre anni. Con il primo abbiamo lavorato sul progetto, con il secondo è partita la fase esecutiva e il terzo l’ha bloccato, mettendolo in discussione completamente. Abbiamo dovuto difenderne la credibilità con le unghie e ci sono stati di aiuto sia l’autorevolezza dell’Università con cui l’avevamo sviluppato, sia il premio internazionale che ci ha acceso l’attenzione dell’opinione pubblica. E così dopo un anno è ripartito. È stato completato con una serie di modifiche in fase di realizzazione, ma il cuore è rimasto. E gli effetti straordinari per il quartiere si sono visti subito. Ma se c’è una cosa che ci rassicura ancora di più è vedere la comunità locale che se ne prende cura: qui, quando ci sono soldi per realizzare opere pubbliche, poi non ce ne sono mai per la manutenzione. E tutto finisce nell’abbandono. Nei nostri progetti invece la comunità se ne prende cura direttamente o fa pressione sugli amministratori perché lo facciano.

Grazie a questo primo progetto, vi hanno proposto commissioni in altre città messicane.
Sì. Ci siamo resi conto che è una nicchia non coperta dall’architettura: si tratta di risolvere problemi che implicano il ridisegno dello spazio pubblico. È una cosa che l’architettura può fare. È successo a Nogales, una città di frontiera con gli Usa, dove ai grandi problemi di povertà si sommano persino le alluvioni: è una zona desertica, ma quando piove si inonda. Ci hanno chiamati per fare due progetti: un parco e un bacino per il contenimento dell’acqua piovana. Noi li abbiamo integrati in un’unica soluzione: un bacino all’interno di un grande spazio pubblico. Abbiamo previsto diverse piattaforme: quando ci sono giorni di piogge forti sale l’acqua fino al limite e copre tutto lo spazio fruibile dal pubblico, ma durante la maggior parte dell’anno si vive come un parco per passeggiare e giocare nei campi sportivi. A Ecatepec, invece, nella Valle del Mexico, abbiamo realizzato un sistema di terrazze filtranti con pietre vulcaniche del luogo, sembrano le terrazze di riso in Cina. A Tijuana, nell’area metropolitana della capitale, abbiamo lavorato in un quartiere che si è sviluppato come un enorme agglomerato di case basse, mangiandosi chilometri di territorio, ma senza neppure uno spazio pubblico.
Qui ci hanno chiesto di intervenire su un terreno su cui era prevista una strada, mai realizzata: la terra è impermeabile e sempre si alza una polvere insopportabile. Allora abbiamo realizzato un parco sopraelevato con piccole piattaforme, una piazzetta, isole pedonali e sentieri, ricoperto di pietra vulcanica e piantato alberi in una specie di rambla.

In questo modo l’architettura riesce a slittare in altri campi per dar forma a politiche pubbliche.
È proprio così. L’architettura spesso si esprime come gesto d’arte, il che è molto difficile perché sono pochissimi gli architetti che ci riescono veramente. In secondo luogo, è una scelta carissima e per pochi. In realtà l’architettura è il disegno dello spazio, e di quello domestico prima di tutto. Noi facciamo i conti con un contesto urbano, come Città del Messico, che reclama l’attenzione dell’architettura: la maggior parte della nostra città è informale, autocostruita e malmessa e noi abbiamo il dovere di volgere lo sguardo là. Non per fare architettura sociale o popolare, ma architettura e basta. Dovremmo capire questa città irregolare, le condizioni di vita dei suoi abitanti e quali progetti mettere in campo per suturare questa città rotta. In questo senso diventa molto potente l’architettura. E per di più la si può fare esprimendo una grande qualità, con una estetica importante.

Voi progettate anche case private, con una soluzione di spazi sofisticata ma con una estetica molto austera. Che relazioni hanno i due ambiti, quello dello spazio pubblico e quello privato?
C’è una relazione stretta, seguiamo una filosofia analoga: siamo convinti infatti che qualunque progetto debba essere al servizio della città, incluse l’estetica degli spazi e la forma degli edifici e dei servizi. In realtà, abbiamo cominciato proprio con edifici privati, mentre facevamo ricerca su acqua e città. Fin da subito abbiamo pensato a una architettura che desse valore alla città, la migliorasse. Ci siamo concentrati su progetti a basso costo, ma con grande qualità architettonica, che si possano facilmente replicare. La chiave è sempre il disegno degli spazi: un’entrata a livello, patii interni collegati, il tema della luce e dei materiali, il rapporto tra spazi intimi e comuni. La qualità della città può essere portata dentro gli spazi privati e viceversa. E sempre cerchiamo una sorta di auto-censura: non vogliamo brillare per l’immagine patinata, ma per la qualità degli spazi e l’economia del processo costruttivo. Vale per i privati e vale per il pubblico».

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