Il portavoce del ministero degli esteri iraniano, Naser Kanani, ha dichiarato che l’Iran è «legalmente autorizzato» a punire Israele per l’assassinio sul suo territorio del leader di Hamas Haniyeh.
È certamente arduo sostenere che un’azione unilaterale della Repubblica islamica rientrerebbe «nel quadro della Carta delle Nazioni unite e del diritto internazionale». Ma d’altra parte le università e i giuristi israeliani sono impegnati nella produzione di argomenti giuridici per sostenere che lo Stato ebraico rispetta il diritto internazionale. Stiamo parlando di decine di migliaia di morti civili e di attacchi diretti intenzionalmente su scuole, ospedali, campi profughi.

Con la giustificazione che nascondono militanti e dirigenti palestinesi. Dell’eliminazione di personale sanitario, giornalisti, operatori internazionali, intellettuali. Del gioco del gatto col topo per la popolazione di Gaza costretta di continuo a spostarsi per essere di nuovo bombardata. Della riduzione alla fame come pratica di guerra. Una politica di apartheid nei territori occupati illegalmente da 57 anni, con detenzioni arbitrarie, torture, aggressioni ai civili, distruzione delle abitazioni. Israele è uno «Stato fuorilegge», secondo l’espressione di John Rawls, oppure dimostra l’impotenza del diritto internazionale?

Il diritto internazionale non è nato bene. La sua fondazione è avvenuta nel contesto della conquista dell’America e del genocidio dei nativi. Per i suoi teorici, fra Ottocento e Novecento, era il diritto delle nazioni cristiane e “civili” alle quali ha lasciato fuori dall’Europa libertà di massacro e sottomissione. Dalla legittimazione giuridica del colonialismo e dell’imperialismo si arriva alla pratica odierna dei «doppi standard». Anche qui Israele è un caso di scuola: di fronte all’uccisione terroristica di leader politici in Stati terzi, ai continui attacchi al Libano, all’annessione del Golan ci si limita a prendere atto, se non si organizzano «nuove Termopili» contro il «nemico persiano», come nella delirante titolazione di Repubblica.

D’altra parte il diritto internazionale è debole: è sempre in affanno nel seguire l’evoluzione tecnologica dei sistemi di arma, dall’aviazione alle armi chimiche, al nucleare, al cyberwarfare, ai droni e all’uso dell’intelligenza artificiale per togliere agli umani la scelta se uccidere. La proibizione della guerra contenuta nella Carta delle Nazioni unite è resa ineffettiva dalla stessa struttura oligarchica dell’organizzazione, con il potere di veto attribuito ai cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza. Per il diritto internazionale umanitario la guerra in linea di principio è legittima e ai combattenti è attribuito il “privilegio” di condurla. Oltre a questo peccato originale, in base al principio di proporzionalità sono vietati come attacchi «indiscriminati» che possano recare morti civili e danni alla popolazione civile «eccessivi rispetto al vantaggio militare concreto e diretto previsto» (Primo protocollo aggiuntivo alla Convenzione di Ginevra, articolo 51). Così come sono vietate le armi «capaci di causare mali superflui o sofferenze inutili» (articolo 35). Ma non ci sono definizioni di «eccessivo» o di «inutile»; per le forze armate israeliane cento morti civili per un dirigente di Hamas non lo sono eccessivi.

Ma i doppi standard vacillano: la Corte Internazionale di giustizia ha ordinato a Israele di evitare e prevenire atti di genocidio, vietato l’invasione di Rafah, giudicato illegale l’occupazione dei Territori palestinesi. Il procuratore della Corte penale internazionale dopo decenni di ignavia ha proposto l’arresto di Netanyahu e Gallant.

Il diritto è insomma un campo di lotta; ma per le sue stesse caratteristiche strutturali può depotenziare la virulenza dei conflitti e favorire un riconoscimento delle differenze nella loro pluralità. Le utopie giuridiche, come quella della «Costituzione della terra» redatta da Luigi Ferrajoli, hanno la stessa funzione che Marx ed Engels attribuivano alle utopie socialiste: il loro ruolo critico è tanto più importante quanto meno è avanzato lo «sviluppo storico». Ma pensare che il diritto internazionale possa divenire un sistema omogeneo e gerarchicamante strutturato significa non riconoscere l’irriducibilità, e il valore, del pluralismo delle culture, dei valori e dei sistemi giuridici.

Il diritto è un risorsa necessaria per scongiurare e limitare la guerra, ma non è sufficiente. Di fonte al tentativo disperato di mantenere l’egemonia imperale progettata dopo la Guerra fredda il diritto, per esercitare la sua funzione, ha bisogno di mobilitazione e di pressione dal basso, dai campus americani alle piazze del mondo intero. E occorrono alternative pacifiche, realtà regionali capaci di esercitare una funzione di contenimento e bilanciamento. L’Europa potrebbe e dovrebbe avere un ruolo in questo senso, ma sembra averci rinunciato. Né Xi né Modi sono pacifisti assoluti, e forse neppure Ramaphosa né Lula, ma quello che si vede nel mondo lascia aperta qualche speranza.