Dietro lo sguardo triste di Kriss, adolescenze inquiete in Texas
Cannes 72 La prima giornata di Un Certain regard propone «Bull», lungometraggio d’esordio per la californiana Annie Silverstein
Cannes 72 La prima giornata di Un Certain regard propone «Bull», lungometraggio d’esordio per la californiana Annie Silverstein
Insieme al film d’inaugurazione, il canadese La Femme de Mon Frere, la prima giornata della sezione Un Certain Regard ha visto la proiezione di Bull, esordio al lungometraggio della quarantunenne californiana Annie Silverstein, e un ritorno a Cannes dove era stata, e aveva vinto, nel 2014, con il cortometraggio, Skunk.
Anche in Bull la protagonista è una ragazzina, Kris (Amber Harvard – sguardo intenso, diffidente), sballottata tra una nonna brusca, una mamma in prigione, una sorellina piccola che spesso dove accudire e degli amici da cui si sente rifiutata. Forse per guadagnare la loro stima, Kris si introduce clandestinamente, e improvvisa una festa, nella casa del vicino, un cowboy afroamericano stanco, che – durante il week end – si sposta con i rodei per cui lavora, il suo compito quello di distrarre tori furiosi quando il concorrente che li monta viene sbalzato di groppa. Di ritorno, Abe (Rob Morgan) trova la casa devastata e i ragazzini in fuga -non gli è difficile identificare il colpevole. Kris è già sull’auto della polizia – sembra quasi auspicarsi di finire in riformatorio- quando lui acconsente alle preghiere della nonna e le dà un’altra chance: a patto che ripulisca la casa e aggiusti tutto.
TRA I DUE inizia così un rapporto guardingo, un legame di tenue, reciproca, intesa. Abe introduce Kris al mondo dei rodei di tori – da dove lui, sempre più malconcio ormai fa fatica a trovare impiego. Brevi sprazzi d’interesse accendono gli occhi della ragazzina, quasi troppo fulminei per chiamarli speranza. Lavorando sullo sfondo di una comunità rurale povera del Texas, che ricorda quelle dei primi lavori di Roberto Minervini, ma anche il West impoverito delle riserve indiane nei film di Chloe Zhao (The Rider, in particolare) e quello del recente Mustang, Silverstein ha un occhio discreto, scevro di sentimentalismi. Non si lascia tentare dall’happy ending, ma nemmeno da un fatalismo fatto cadere dall’alto.
IL SUO è però un film stranamente privo di trasporto e di sorprese, un po’ dosato con il contagocce -prigioniero (di una precisa nozione di cinema indipendente «ben fatto»), come i sui personaggi.
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