Sette anni fa mise nero su bianco il vocabolo più scottante del caso Diaz: tortura. Stavolta scrive la parola fine su una vicenda che occupa già un posto di rilievo nella poco brillante storia delle nostre forze di polizia.

La Corte europea per i diritti umani ha respinto l’ultimo ricorso pendente, e chissà se Gilberto Caldarozzi, Francesco Gratteri, Giovanni Luperi e gli  altri funzionari condannati in via definitiva per la “notte dei manganelli” al G8 di Genova del 2001 speravano davvero di spuntarla così, all’ultimo tuffo, invocando la lesione del principio dell’equo processo, per la mancata riconvocazione in appello dei testimoni.

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La Corte europea, in sintonia con valutazioni già consolidate in Cassazione, ha respinto il ricorso, ma c’è qualcosa di ironico in tutto ciò, se pensiamo che al processo Diaz quasi tutti gli imputati (compresi i ricorrenti) scelsero di non testimoniare, avvalendosi – pur ricoprendo, alcuni di loro, incarichi di altissimo rango nella polizia di stato – della facoltà concessa a tutti gli imputati di non rispondere alle domande dei pm.

Il processo Diaz – non dimentichiamolo – è stato  difficile e tormentato per gli evidenti risvolti politici e istituzionali; un processo apertamente ostacolato dai vertici di polizia, con un’omertà di fondo  (indicata a chiare lettere nella requisitoria dei pubblici ministeri Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini) e comportamenti a dir poco irriguardosi:

  • l’invio di fotografie degli agenti pressoché inutilizzabili per eventuali tentativi di riconoscimento personale;
  • la mancata decifrazione della quattordicesima firma (dalla grafia illeggibile) in calce al verbale d’arresto, risultato interamente falso;
  • l’inopinata distruzione delle due bombe molotov – una fonte di prova nel processo (le avevano portate i poliziotti ma erano state attribuite agli occupanti della scuola, a pestaggio avvenuto) – affidate in custodia alla questura di Genova;
  • la mancata identificazione dell’agente coi capelli a coda di cavallo ripreso da una telecamera mentre picchiava qualcuno all’interno della scuola Diaz e poi risultato – ma troppo tardi per processarlo – un agente in servizio alla questura di Genova e addirittura presente in aula fra il pubblico  alle udienze del processo…
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La Corte di Strasburgo ha chiuso definitivamente il caso, ma se avessimo voglia di leggere tutte le sue sentenze – e in Italia, in seno alle istituzioni, questa voglia non c’è – scopriremmo che alcune questioni sono tuttora aperte.

Qualcuno ricorda la sentenza Cestaro del 2015? E’ la sentenza che scosse per un attimo sia i grandi media sia il Palazzo: i giudici europei dicevano che alla scuola Diaz era stata praticata la tortura, che la polizia di stato aveva ostacolato le indagini giudiziarie senza tuttavia essere sanzionata, che la giustizia italiana aveva inflitto pene troppo lievi ai responsabili gerarchici  del blitz alla Diaz e che gli autori materiali delle violenze erano sfuggiti a ogni conseguenza legale.

La sentenza prescriveva all’Italia di destituire i condannati in via definitiva, di introdurre nell’ordinamento il crimine di tortura e di obbligare gli agenti in servizio di ordine pubblico a indossare codici di riconoscimento sulle divise.

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La Corte chiedeva insomma all’Italia di fare i conti con la sua dimostrata, strutturale incapacità di rendere giustizia ai propri cittadini privati di diritti umani fondamentali.

Sappiamo com’è andata a finire: il rumore causato dalla sentenza del 2015 e dalle sue dure considerazioni ha prodotto una (mediocre) legge sulla tortura e nient’altro.

Le forze di polizia, in questi ventuno anni, hanno dimostrato in innumerevoli occasioni di non avere affatto elaborato la “lezione di Genova”, confermando indirettamente quanto fossero sensate e fondate le dure parole dei giudici europei.

Il caso Diaz è tecnicamente chiuso, ma il caso Genova G8 è politicamente, socialmente e professionalmente aperto: la “polizia di Genova” non è il passato, ma il nostro imbarazzante presente.

L’autore fa parte del Comitato Verità e Giustizia per Genova