Il blitz alla Diaz durante il G8 di Genova deve essere qualificato come «tortura», alla polizia è stato consentito di non collaborare alle indagini e la reazione dello Stato italiano non è stata efficace violando l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Lo ha stabilito la Corte europea di Strasburgo (Cedu) che ha accolto il ricorso di Arnaldo Cestaro, uno dei 92 manifestanti, picchiati e ingiustamente arrestati la notte del 21 luglio 2001. Cestaro, all’epoca 62 enne, uscì dalla scuola con fratture a braccia, gambe e costole che hanno richiesto numerosi interventi negli anni successivi.

Una sentenza che pesa come un macigno per un Paese le cui istituzioni hanno minimizzato fino all’ultimo quanto accadde in quella che, grazie alle parole di uno dei poliziotti intervenuti, è nota come la «macelleria messicana».

La sentenza, decisa all’unanimità, per la prima volta condanna l’Italia per violenze qualificabili come tortura, escludendo che i fatti possano essere considerati solo come «trattamenti inumani e degradanti» e sottolineando la gravità delle sofferenze inflitte e la volontarietà deliberata di infliggerle. La Corte respinge anche la difesa del governo italiano secondo cui gli agenti intervenuti quella notte erano sottoposti a una particolare tensione: «La tensione – scrivono i giudici – non dipese tanto da ragioni oggettive quanto dalla decisione di procedere ad arresti con finalità mediatiche utilizzando modalità operative che non garantivano la tutela dei diritti umani».

La Cedu entra poi nel cuore del problema: la reazione (o non reazione) dello Stato italiano a ciò che avvenne.

«Gli esecutori materiali dell’aggressione non sono mai stati identificati e sono rimasti, molto semplicemente, impuniti» e la principale responsabilità di ciò è addebitabile alla «mancata collaborazione della polizia alle indagini». Ma la Corte va anche oltre e lamenta che «alla polizia italiana è stato consentito di rifiutare impunemente di collaborare con le autorità competenti nell’identificazione degli agenti implicati negli atti di tortura». I giudici ricordano che gli agenti devono portare un «numero di matricola che ne consenta l’identificazione». Per quanto riguarda le condanne «nessuno è stato sanzionato per le lesioni personali» a causa della prescrizione mentre sono stati condannati solo alcuni funzionari per i «tentativi di giustificare i maltrattamenti». Ma anche costoro hanno beneficiato di tre anni di indulto su una pena totale non superiore ai 4 anni.

La responsabilità di tutto ciò non è stata né della Procura né dei giudici ai quali il Governo italiano secondo la Corte ha provato ad attribuire la «colpa» della prescrizione. Anzi, al contrario, i magistrati hanno operato «diligentemente, superando ostacoli non indifferenti nel corso dell’inchiesta».

Il problema, secondo la Corte, è «strutturale»: «La legislazione penale italiana si è rivelata inadeguata all’esigenza di sanzionare atti di tortura in modo da prevenire altre violazioni simili».

Infatti «la prescrizione in questi casi è inammissibile», come inammissibili sono amnistia e indulto.

La Corte ritiene necessario che «i responsabili di atti di tortura siano sospesi durante le indagini e il processo e, destituiti dopo la condanna». Esattamente il contrario di quanto accaduto. Forse anche per questo «il Governo italiano non ha mai risposto alla specifica richiesta di chiarimenti avanzata dai giudici di Strasburgo».

Dall’ex capo dell’Ucigos Giovanni Luperi al direttore dello Sco Francesco Gratteri al suo vice Gilberto Caldarozzi, al capo del reparto mobile di Roma Vincenzo Canterini, i massimi vertici della polizia hanno proseguito le loro brillanti carriere fino alla condanna definitiva. Per molti di loro è arrivata nel frattempo l’agognata pensione, per gli altri nessuna destituzione da parte del Viminale ma solo l’interdizione per 5 anni dai pubblici uffici disposta dai giudici, terminata la quale potranno rientrare in servizio. Per i capisquadra dei picchiatori del nucleo sperimentale antisommossa di Roma, condannati ma prescritti prima della Cassazione (ritenuti però responsabili agli affetti civili) non risultano sanzioni disciplinari, tantomeno per i loro sottoposti mai identificati.

«I vertici delle forze di polizia hanno ricevuto in questi anni soltanto attestazioni di stima e solidarietà» commenta il procuratore generale di Genova Enrico Zucca, che ha sostenuto l’accusa contro i poliziotti in primo e secondo grado – e mi rifiuto di credere che lo stato non abbia funzionari migliori di quelli che sono stati condannati». «Quando nel corso dei processi insieme al collega Cardona parlavamo di tortura citando proprio casi della Cedu ci guardavano come fossimo pazzi», ricorda con un pizzico di amarezza mista alla soddisfazione per una sentenza che considera però «scontata». Per il magistrato, che spesso si trovò isolato anche all’interno della stessa Procura nell’inchiesta più scomoda «bisogna prevenire fatti di questo genere e in Italia non abbiamo antidoti all’interno del corpo di appartenenza. Le dichiarazioni dopo la sentenza definitiva dell’allora capo della polizia Manganelli non sono solo insufficienti ma dimostrano la mancata presa di coscienza di quello che è successo. Fece delle scuse, sì, ma parlando di pochi errori di singoli, senza riflettere sulla vastità del fenomeno».

La sentenza che ha condannato l’Italia a un risarcimento di 45 mila euro ad Arnaldo Cestaro arriva a quattro anni dal ricorso. I legali di Cestaro, gli avvocati Niccolò e Natalia Paoletti, che non hanno neppure atteso la sentenza di Cassazione per rivolgersi alla Cedu, esprimono soddisfazione: «Siamo molto contenti, soprattutto per il fatto che la corte ha rilevato l’enorme mancanza dell’ordinamento interno italiano, vale a dire la non previsione del reato di tortura e lo invita quindi a a porre dei rimedi». Per il loro cliente anche un risarcimento superiore a quanto normalmente disposto dalla Corte per casi simili «anche se – dice l’avvocato – parlare di cifre rispetto alla violazione di determinati diritti, è svilente».

«La sentenza della Corte di Strasburgo – commenta il sindaco di Genova Marco Doria – riconosce la tragica realtà delle violenze perpetrate alla Diaz e mette a nudo la responsabilità di una legislazione che non prevede il reato di tortura e, per questa ragione, lascia sostanzialmente impuniti i colpevoli. È una sentenza di grande valore, non solo da rispettare, ma da condividere pienamente». «Uno stato democratico – aggiunge il sindaco – non deve mai tollerare che uomini che agiscono in suo nome compiano atti di brutale violenza contro le persone e i diritti dell’uomo. È, questa, una condizione essenziale anche per difendere la dignità di quanti operano invece negli apparati dello Stato secondo i principi della Costituzione».

L’Italia, che potrebbe fare ricorso contro la sentenza, sarà costretta a ottemperare con una legge ad hoc.

«Il modello – spiega l’avvocato Paoletti – potrebbe essere per esempio quello francese, che prevede per la tortura una pena base di 15 anni, aumentata a 20 in caso sia un pubblico ufficiale a commetterla e a 30 in caso di infermità permanente per la vittima, ma si sa che il nostro Paese è molto ’bravo’ a ottemperare con molta lentezza alle sentenze della Cedu».

Nell’attesa, comunque lo Stato italiano potrebbe essere costretto a sborsare molto per risarcire le altre circa 60 parti civili della Diaz che hanno fatto ricorso in blocco dopo la sentenza definitiva. Se quella di Cestaro può essere considerata una sentenza-pilota, si può ipotizzare un risarcimento di quasi 3 milioni di euro. Senza contare i processi civili per le vittime non solo della Diaz ma anche di Bolzaneto, che sono appena cominciati.