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Dialogo sospeso fra Stati uniti e Cina, che si sente sempre più accerchiata

Dialogo sospeso fra Stati uniti  e Cina, che si sente sempre più accerchiataIl segretario di Stato Usa Antony Blinken – Ap

Il limite ignoto L'escalation diplomatica con le visite asiatiche di Jens Stoltenberg e Lloyd Austin

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 4 febbraio 2023

«Cina e Stati uniti devono trovare il modo di andare d’accordo», scriveva nei giorni scorsi il Quotidiano del Popolo. «L’America è il peggior nemico della pace globale e della stabilità dai tempi della seconda Guerra Mondiale», si leggeva invece sull’organo ufficiale dell’Esercito popolare di liberazione. Dopo la cancellazione dell’attesa visita di Antony Blinken, è prevedibile che dalle parti di Pechino si sentirà pronunciare di più la seconda versione.

IL MANCATO riavvio del dialogo ad alti livelli non potrà che esacerbare le già alte tensioni tra le due potenze. La Cina si sente accerchiata dalle manovre a tenaglia che gli Usa stanno operando in Asia-Pacifico, condotta sia sul fronte tecnologico sia su quello militare. Il mese di gennaio è stato vissuto dal Partito comunista come una costante escalation diplomatica da parte della Casa bianca e della Nato. I cahiers de doléances di Xi Jinping partono dalle nuove restrizioni all’esportazione di tecnologia avanzata per la produzione di semiconduttori dopo l’ok di Giappone e Paesi bassi a Joe Biden. Mossa alla quale il governo cinese sta pensando di rispondere col controllo delle esportazioni della componentistica necessaria alla fabbricazione dei pannelli solari.
Ma la partita più delicata è quella militare. Nei giorni scorsi, il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg è andato in Corea del Sud e Giappone. A Seul ha chiesto di inviare armi in aiuto dell’Ucraina. Per ora senza successo, visto che le leggi sudcoreane impediscono l’esportazione di armamenti verso paesi in conflitto. Anche se la Corea del Sud rifornisce già la Polonia, coprendo i buchi negli armamenti di Varsavia creati dal sostegno a Kiev. A Tokyo, il leader dell’Alleanza Atlantica ha invece esplicitamente collegato il fronte europeo a quello orientale, sostenendo che quanto sta accadendo oggi in Ucraina potrebbe accadere domani in Asia. Con in mente, ovviamente, la Cina.

I DUE VICINI orientali di Pechino sono sempre più nell’orbita di Washington e Nato. Una tendenza accelerata dall’invasione russa. Il Giappone ha modificato la sua strategia di difesa, abbandonando in parte alcuni tabù imposti dalla costituzione pacifista del dopoguerra. Il 13 gennaio, il premier Fumio Kishida ha confermato l’elevazione della partnership militare con gli Usa direttamente dalla Casa bianca. Sulla stessa linea la visita del segretario alla Difesa Lloyd Austin a Seul, meno di 48 ore dopo quella di Stoltenberg.
Il capo del Pentagono è poi andato a Manila, dove ha sottoscritto un accordo con le Filippine per garantirsi il libero accesso a 4 nuove basi militari sul territorio dell’ex colonia, in aggiunta alle precedenti 5. Mossa dal valore strategico, vista la prossimità ai due principali teatri di potenziali crisi nell’area: Taiwan e mar Cinese meridionale. Ma il valore è anche politico. Se Pechino dava già parzialmente per “persi” Giappone e Corea del Sud. Rodrigo Duterte aveva riorientato la postura filippina verso la Cina. E meno di un mese fa il successore Ferdinand Marcos Jr. era stato ricevuto da Xi.

I MOVIMENTI americani non si fermano al fronte sud-orientale. Sempre nei giorni scorsi, il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan ha firmato con l’omologo indiano Ajit Doval la Initiative on Critical and Emerging Technologies, che faciliterà la cooperazione in settori strategici come informatica quantistica, intelligenza artificiale e semiconduttori. Creato anche un meccanismo per facilitare la produzione congiunta di armi, proprio dopo che Nuova Delhi ha approvato un budget militare da 72,8 miliardi di dollari (+13%) con un occhio alle tensioni lungo l’enorme confine conteso con la Cina, dove a dicembre si sono verificati nuovi scontri.

Biden si muove anche sulle isole del Pacifico meridionale, dopo che decenni di distrazione hanno consentito a Pechino di mettere radici. Riaperta dopo 30 anni l’ambasciata nelle Isole Salomone, che lo scorso aprile hanno firmato un accordo di sicurezza con la Cina. Mentre gli Stati Federati della Micronesia preannunciano l’estensione dell’accordo militare con gli Usa. In questo scenario, la mancata ripresa del dialogo rende più difficile fissare dei paletti da rispettare per evitare incidenti più gravi del sorvolo di un pallone aerostatico.

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