La giornata dedicata alla festa catalana, la Diada, da qualche anno ha cambiato profilo. L’11 settembre è il ricordo di una bruciante sconfitta in una mera guerra dinastica di 300 anni fa che non era né nazionale, né identitaria. Nel XIX secolo diventa simbolo dell’identità catalana e subito dopo il franchismo, la Diada – vietata dai golpisti – è l’occasione per unire anche la rivendicazione sociale, con sindacati e lavoratori, soprattutto andalusi.

Ma è tornata in auge in risposta alle crociate popolari contro lo Statuto di autonomia, inopinatamente avvallate da un tribunale costituzionale molto politicizzato nel 2011. Da allora la manifestazione è sempre più massiva, coreografica. Anche quest’anno a organizzare la principale manifestazione sono l’Associazione nazionale catalana, Anc, e Òmnium cultural, nel timore di una smobilitazione (i volontari sono il 25% meno). La richiesta di fondo è la stessa degli ultimi anni: vogliamo poter decidere del nostro futuro.

Una richiesta identitaria largamente maggioritaria in Catalogna. Ma il passo successivo è assai meno chiaro: nonostante gli sforzi dei partiti centralisti di far identificare Madrid con l’immobilismo e l’incapacità di ascoltare, ancora oggi, in un improbabile referendum, l’opzione indipendentista non sarebbe maggioritaria.

Ed è su quest’equilibrismo che è centrata la battaglia politica catalana oggi, sempre con un occhio a Madrid. Persino un governo guidato dal Psoe, altro partito altrettanto allergico all’idea di autodeterminazione, indebolirebbe le argomentazioni indipendentiste. Non è un caso che la zoppicante alleanza fra Junts pel Sí (JxS), coalizione che unisce la destra catalana e la sinistra repubblicana e che esprime il governo catalano, e i movimentisti radicali di sinistra della Cup, sia in difficoltà a disegnare i futuri passi. Il loro fragile accordo parlamentare si basa esclusivamente su una vaga idea di arrivare all’indipendenza, anche se tutti sanno che l’uscita unilaterale dalla Spagna è impossibile.

Il 28 settembre per la prima volta in Catalogna, Puigdemont ha chiesto un voto di fiducia ai soci della Cup, che gli hanno affossato la legge di bilancio 2016 a maggio. L’utile instabilità a Madrid e il cambio al vertice della Cup spingeranno i movimentisti a ridargli la fiducia. Ma dopo? Mistero. Entro l’anno Puigdemont ha promesso l’indipendenza, ma scartato lo strappo unilaterale, senza Podemos al governo, il referendum legale sembra impossibile.

Intanto ci sono timide manovre per rompere l’impasse. Venerdì si sono visti in un atto di celebrazione dei 40 anni dalla prima Diada postfranchista i tre partiti di sinistra: la Cup, Esquerra Republicana (parte di JxS) e Podemos, unico non indipendentista che chiede il referendum.

E oggi gli indipendentisti non saranno gli unici in piazza: oltre alla manifestazione di Anc e Òmnium, cui parteciperà il governo catalano, ce ne sarà una di Podemos e Barcelona en comú, con Ada Colau, e una della sinistra indipendentista, con la Cup.