«In Italia non abbiamo mai visto nulla di simile», hanno dichiarato gli operatori di Medici senza frontiere (Msf) impegnati nell’assistenza ai sopravvissuti della strage di Steccato di Cutro. Sergio Di Dato è il responsabile dell’intervento. Ha 44 anni e una lunga esperienza con l’organizzazione umanitaria: sia nel nostro paese in progetti legati alle migrazioni, che all’estero in scenari di emergenza particolarmente complessi. Tra questi: Sud Sudan, Siria, Venezuela, Sud Africa, Filippine.

Come stanno i sopravvissuti il giorno dopo la strage?

Continuano a essere molto provati. La perdita di conoscenti o familiari deve ancora essere interiorizzata. Stanno cercando di capire dove si trovano. Il secondo giorno è stato un po’ più semplice parlarci grazie al legame che si sta creando con il nostro team composto da psicologi e mediatori culturali. Domenica abbiamo trovato persone chiuse in un silenzio catatonico, altre perse in un pianto continuo ed estremo.

Notizie dei dispersi?

Abbiamo cercato di fare delle stime perché numeri esatti non ce ne sono. Incrociando le testimonianze e le informazioni delle altre organizzazioni presenti sul campo crediamo che sul barcone viaggiassero 180 persone. 82 sono state salvate. I cadaveri recuperati sono 63. Ne mancano 35.

Tra i superstiti ci sono minori?

Cinque minori con meno di 12 anni si trovano nel reparto pediatrico dell’ospedale di Crotone. Un sedicenne era finito in terapia intensiva ma successivamente è stato spostato in reparto. Altri minori sono nel Cara di Crotone, dove stiamo realizzando il nostro intervento. Lì le persone sono in attesa di identificazione. Un ragazzo di 16 anni ritenuto particolarmente vulnerabile perché ha perso la sorella di 28 anni, invece, è stato trasferito in un centro dedicato della provincia di Cosenza. Soprattutto grazie all’impegno della Croce rossa e di organizzazioni come la nostra.

Un uomo ha perso la moglie e tre figli. Vi ha raccontato da cosa fuggiva?

È una delle prime persone che abbiamo incontrato. Uno dei casi più delicati. Della sua famiglia sono rimasti in vita lui e un figlio di 13 anni. È morta la moglie e altri tre figli di 11, 9 e 5 anni. Venivano tutti dall’Afghanistan. L’uomo ha lavorato per delle organizzazioni occidentali e dopo la presa del potere da parte dei Talebani rischiava la vita. Per questo ha deciso di partire. Adesso è bloccato in un grande senso di colpa: ritiene di aver messo in pericolo e causato la perdita dei familiari per proteggere la sua vita.

Piantedosi dice che è irresponsabile salire su quei barconi. Che ne pensa?

Personalmente sono padre di due figlie e vivo in un paese ad alto rischio sismico. Se ci fosse un terremoto e le mie figlie rimanessero boccate sotto un soffitto che crolla farei di tutto per tirarle fuori. È una metafora, ma molte persone in altre zone del mondo si trovano ogni giorno in condizioni di questo tipo. Non si tratta di essere incoscienti ma di tutelare l’affetto e l’amore per i propri familiari. Credo siano questi sentimenti a distinguerci dagli animali.

I migranti vi hanno riferito se nelle ore precedenti al naufragio hanno incrociato o visto da lontano altri mezzi navali?

No, ma questo non fa parte della tipologia di intervento che realizziamo e si concentra nelle prime 48 ore. In questa fase le persone sono concentrate sul trauma. Simili dettagli, eventualmente, verranno fuori nelle prossime settimane quando i sopravvissuti inizieranno a interiorizzare l’accaduto e ricomporre il puzzle. In quel momento potrebbero ricordare nuove informazioni. Le prime richieste verso di noi sono state semplicemente di chiamare i conoscenti nel paese d’origine.

In un articolo del Corriere della sera è riportata una testimonianza secondo cui gli scafisti avrebbero buttato in mare delle persone, forse addirittura venti, per alleggerire il mezzo. Vi risulta dalle voci che avete raccolto?

No. Arrivati al centro questa mattina (ieri per chi legge, ndr) abbiamo appreso che circolava questa notizia ma le persone che abbiamo incontrato durante i colloqui non erano a conoscenza di questa informazione. Noi abbiamo parlato con le 60 che sono al Cara. Altre 22 si trovano in ospedale e le vedremo solo nei prossimi giorni. Magari da lì potrebbe emergere qualche nuovo dettaglio. Ma visto l’alto numero di sopravvissuti con cui abbiamo parlato non ritengo affidabile questa informazione.