Cultura

Dentro l’America tra realtà e visione

Dentro l’America tra realtà e visioneLa main street delle cittadina di Rangely, lungo la Colorado Highway 64 Getty Images

Geografie Un percorso di lettura tra inchieste e saggi che indagano il Paese. In vista del voto del 5 novembre un tour coast to coast nelle contraddizioni sociali e i fantasmi politici. Foer, «L’ultimo dei politici» (Longanesi), Beauchamp, «Lo spirito reazionario» (minimum fax), Desmond, «Povertà in America» (La nave di Teseo), Cometto, Maggi «Qui non è Nuova York» (Neri Pozza)

Pubblicato 2 giorni faEdizione del 29 ottobre 2024

Uno dei più celebri giornalisti e politologi statunitensi, Walter Lippmann, scomparso nel 1974 a più di ottant’anni dopo aver segnato profondamente con le proprie idee la prima metà del Novecento e aver attraversato l’intero orizzonte politico e culturale del Paese, invitava ad indagare ogni realtà senza fermarsi alla superficie. «L’ipotesi che a me sembra più feconda – sosteneva Lippmann – è che la notizia e la verità non siano la stessa cosa, e debbano essere chiaramente distinte. La funzione della notizia è di segnalare un fatto, la funzione della verità è di portare alla luce fatti nascosti, di metterli in relazione tra loro e di dare un quadro della realtà che consenta agli uomini di agire. La notizia non dice in che modo il seme stia germinando nel terreno ma può dirci quando appare sul terreno il primo germoglio». Più che un appello antesignano dell’odierno allarme suscitato dalle cosiddette fake news, le parole di Lippmann sembrano suonare da saggio monito nei confronti di quanto crediamo di sapere su ciò che talvolta osserviamo senza porci il problema di un necessario approfondimento. Alla vigilia delle elezioni presidenziali americane del 5 novembre, la sensazione che si discuta molto intorno a cose che, in fondo, si conoscono abbastanza poco, è tutt’altro che trascurabile.

UNA LACUNA cui si può almeno in parte porre rimedio consultando alcune opere recenti, spesso arrivate in libreria proprio in vista del voto per la Casa Bianca, e che consentono di fare il punto su alcuni temi di fondo che caratterizzano la situazione sociale e politica degli Stati uniti ancor più di quanto dica l’attuale campagna elettorale. Tra questi, le profonde differenze, ma anche gli argomenti unitari, che nutrono la vita quotidiana degli oltre 300 milioni di abitanti di un Paese che supera i 9 milioni di km² di estensione, l’estensione e la profondità delle differenze sociali tra una realtà e l’altra, l’emersione delle nuove culture di destra che hanno condotto al primo mandato di Donald Trump (2017/2021), il lascito della vecchia guardia democratica, per molti versi legata alla figura del presidente Joe Biden, e il nuovo volto del mondo progressista, incarnato non solo dalla candidatura di Kamala Harris.

Nel primo dei testi qui presi in esame, per quanto in estrema sintesi, il tema delle profonde e intrinseche differenze che definiscono «lo spazio» degli Stati uniti è affermato fin dalle modalità in cui l’opera è stata realizzata. Nato da un’idea del direttore dell’Istituto italiano di cultura di New York, Fabio Finotti, il volume firmato da Maria Teresa Cometto e Glauco Maggi per Neri Pozza (Qui non è Nuova York, pp. 264, euro 20), raccoglie gli appunti di viaggio raccolti dai due noti giornalisti, che vivono da tempo negli Usa, lungo le tappe di altrettanti itinerari coast to coast alla «scoperta dell’America profonda». Lo spirito del progetto, cui il lavoro di Cometto e Maggi ha dato corpo, era proprio quello di indagare cosa «divide» e cosa invece «unisce» oggi gli statunitensi. Un interrogativo tutto fuorché anodino, visto che sull’eredità della fratture emerse, ad esempio in occasione dell’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio del 2021, l’evento drammatico con cui ha preso congedo la presidenza Trump, non si è smesso, e a ragione, di discutere fino ad oggi, tanto più che il Tycoon è di nuovo in corso per la guida del grande Paese.

Nella loro ricerca, gli autori si sono mossi lungo due direttrici, una prima volta a Nord, sulle tracce dei pionieri, da New York all’Oregon, e una seconda a Sud, dalla California fino all’Alabama, seguendo in parte il rilievo degli Appalachi. Se la diversità insita nelle realtà attraversate, e nei molti incontri fatti, è in qualche modo evidente, lo è meno una delle considerazioni che Cometto e Maggi affidano ai lettori spiegando quanto emerga dal loro tour nell’«Altra America», «quella che le élite delle due sponde chiamano flyover country, ossia quella parte del Paese che le persone “importanti” vedono solo dall’aereo quando volano tra Manhattan e Los Angeles» Si tratta però «anche degli Stati in cui molte famiglie americane si sono trasferite negli ultimi anni alla ricerca di una migliore qualità della vita, in termini di sicurezza, di pulizia dell’aria e… di minori tasse». In questo senso, aggiungono i due giornalisti, malgrado l’allarme su un’imminente guerra civile risuoni già da qualche anno, «arrivando a ipotizzare la fine della democrazia», «quello che abbiamo visto con i nostri occhi ci ha lasciato una forte impressione che gli americani non siano davvero così divisi, polarizzati e arrabbiati gli uni contro gli altri come vediamo sui social e sui media mainstream».

MA SE LA POLITICA sembra perciò dividere il Paese meno di quanto si sarebbe portati a pensare, non altrettanto si può dire dell’economia. Nella sua nuova inchiesta, il sociologo dell’Università di Princeton Matthew Desmond, già autore di Sfrattati (La nave di Teseo, 2018), la più ampia indagine sulla crisi abitativa che coinvolge milioni di statunitensi – intervistato su queste pagine il 30 giugno 2018 -, traccia un drammatico ritratto delle ineguaglianze sociali che spingono sulla soglia della sopravvivenza un numero crescente di suoi concittadini. In Povertà in America (appena uscito per La nave di Teseo nella traduzione di Carlotta Ventura, pp. 382, euro 24) Desmond spiega come nel Paese più ricco del mondo, «se i poveri fondassero una nazione, avrebbe una popolazione più grande dell’Australia o del Venezuela». Infatti, prosegue lo studioso, «quasi un americano su nove, incluso un bambino su otto, vive in povertà» e «ci sono oltre 38 milioni di persone che non possono soddisfare le proprie necessità di base e oltre 108 milioni che si arrangiano con un reddito annuo di 55mila dollari o anche meno, bloccati in una via di mezzo tra povertà e sicurezza». Questo, senza contare, che più di un milione degli «studenti delle scuole pubbliche sono senza casa, vivono in motel, automobili, rifugi e edifici abbandonati».

Una situazione che fa di questo tema il vero cuore della realtà sociale del Paese. Al punto che lo stesso Matthew Desmond, lo indica senza esitazione come l’elemento da cui può muovere una vera trasformazione degli Stati uniti, paragonabile, fin dal linguaggio attraverso cui la si descrive, a quella che nella seconda metà dell’Ottocento portò all’abolizione della schiavitù. «Per porre fine alla miseria in America – ribadisce Desmond – saranno necessarie nuove leggi e cambiamenti nei partiti politici. Ma questo processo richiederà anche che ognuno di noi, a modo suo, diventi un “abolizionista della povertà” e si rifiuti di vivere come nemico inconsapevole dei poveri».

NON C’È BISOGNO di grande lungimiranza per immaginare che saranno temi come le differenze tra la vita nelle metropoli delle due coste, piuttosto che nei centri del «Paese profondo», o l’incessante crescita della povertà e le sue conseguenze sulla salute, l’istruzione e «la sicurezza» dei cittadini americani a influenzare non poco, e in ogni caso ben più dei temi internazionali, il voto del 5 novembre. Una prospettiva che, ovviamente pone molte domande alla «politica», o meglio al modo in cui i due grandi partiti che dominano la scena nel Paese, e che esprimono i candidati per la Casa Bianca, sono in grado di intercettare gli umori e i bisogni della società, di incontrare i movimenti che vi si esprimono, di immaginare un futuro per centinaia di milioni di uomini e di donne.

IN QUESTA VIGILIA ELETTORALE, due saggi esaminano rispettivamente il portato della nuova cultura di destra che si esprime a livello internazionale e che negli Usa spinge Trump, riproponendo una logica da culture wars come forse non accadeva da decenni, e il lascito della presidenza Biden da cui è nata la candidatura di Kamala Harris.

In Lo spirito reazionario (traduzione di Luca Briasco, minimum fax, pp. 288, euro 18) Zack Beauchamp, un giovane studioso del populismo di destra, indaga le linee guida tradizionali della destra americana (per prendere in esame poi anche la realtà dell’Ungheria, di Israele e dell’India) per poi addentrarsi nell’ulteriore iperbole antidemocratica che il Partito repubblicano ha conosciuto durante la presidenza Obama, dove i temi «razziali» e legati all’immigrazione sono diventati sinonimo della denuncia di una possibile scomparsa dell’America bianca. Il crogiolo infernale da cui è emersa infine la candidatura di Donald Trump nella prospettiva di una modifica concreta delle regole della democrazia americana. In questo senso, malgrado per l’autore resti una questione aperta, la possibilità o meno che una seconda amministrazione Trump riesca «a mettere davvero il governo federale sotto il suo controllo», che un voto in suo favore risponda paradossalmente ad un disegno antidemocratico, condiviso nei vertici come in parte della base della destra, è ormai una certezza.

Allo stesso modo, vale a dire con altrettanta determinazione, Franklin Foer, figura significativa del giornalismo liberal, già direttore di The New Republic e ora corrispondente dell’Atlantic, dedica un volume al fatto che, a suo dire, con Joe Biden «finisce un’epoca». L’ultimo dei politici (traduzione di Paolo Lucca, Longanesi, pp. 438, euro 24) non è tanto e non solo un omaggio ad un presidente progressista il cui mandato non è forse stato esaminato fin qui con la necessaria attenzione, quanto piuttosto una riflessione sul fatto che quell’arte della mediazione e del confronto che ha a lungo contraddistinto il sistema politico americano, è andata definitivamente in frantumi sotto i colpi del trumpismo arrembante.

CIÒ CHE FOER lascia intravedere al termine di un’inchiesta vecchio stile che segue i passi del politico della Pennsylvania nei suoi quattro anni alla guida della Casa Bianca, dopo gli otto come vice di Obama, è l’idea che dietro i toni moderati di Biden si sia in realtà compiuto una sorta di salvataggio della democrazia del Paese minacciata da una delle ondate di rancore, e razzismo, tra le più potenti della sua storia recente. Come del resto emerge anche dall’autobiografia di Kamala Harris (Le nostre verità, La nave di Teseo, 2021), che di Biden è stata la vicepresidente, per capire l’America, la sua società come la sua politica, serve a poco soffermarsi su quanto si può cogliere a prima vista. Proprio l’attuale candidata democratica, ricorrendo ad un esempio carico di simbolismo, spiega che il suo nome di battesimo significa «fiore di loto» – è figlia di due attivisti dei diritti civili arrivati nel Paese rispettivamente dall’India e dalla Giamaica -, un simbolo importante nella cultura indiana: «Il loto cresce sott’acqua e il suo fiore fuoriesce dalla superficie quando le radici sono ben piantate nel fondale del fiume».

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