Indirizzi che salvano vite, che danno la possibilità di votare o ricevere un sussidio, rendendo concreti i concetti di cittadinanza e democrazia o che, come nel caso delle Judenstrassen, le «vie degli ebrei» cancellate dalle carte stradali della Germania nazista, sono state ripristinate nel dopoguerra, restituendo lo spazio almeno simbolico che occupavano un tempo a vite spazzate via dalla Shoah. Ma anche, è i casi più noti sono quelli del Sud degli Stati Uniti o del Sudafrica post-apartheid, strade e piazze dedicate a generali confederati o ideologi del razzismo che sembrano voler perpetuare per sempre l’odio e la violenza della quale quelle figure erano il simbolo.

In Le vie che orientano (Bollati Boringhieri, pp. 398, euro 25, traduzione di Francesca Pe’), l’avvocatessa, attivista e scrittrice afroamericana Deirdre Mask indaga le relazioni di potere, l’identità e, spesso, la manipolazione della Storia che si celano dietro i nomi di strade e piazze delle nostre città. Un viaggio entusiasmante che dall’antica Roma giunge fino agli homeless delle metropoli statunitensi di oggi, i cui esiti Mask illustrerà domani mattina al Festivaletteratura di Mantova, alle 10 al Palazzo della Ragione insieme a Andrea Staid.

La scrittrice e attivista Deirdre Mask

Dalle baraccopoli indiane alle metropoli occidentali il suo libro racconta come il fatto di possedere un indirizzo può cambiare la vita delle persone, rendendo in qualche modo possibile la loro esistenza. Questo viaggio nella toponomastica globale ci interroga su dove iniziano davvero la democrazia e la cittadinanza: forse all’angolo della strada in cui viviamo?
Non c’è dubbio che la geografia sia intimamente connessa alla democrazia. E da questo punto di vista, la cittadinanza è, in un certo senso, collegata a un indirizzo. Non possederne uno, non essere reperibile in alcun modo da parte di ogni sorta di istituzione, equivale a non contare: si rischia di non essere considerati. E tutto diventa più difficile: ottenere un documento di identità, aprire un conto in banca, essere assistiti dalle forze dell’ordine o da un’ambulanza, esercitare il proprio diritto di voto. Senza contare che se non sei rintracciabile non puoi neppure pagare le tasse che, piaccia o meno, è un aspetto fondamentale del nostro vivere insieme, di come si costruisce una cittadinanza solidale e coesa. Questo per quanto riguarda il possedere o meno un indirizzo, ma i luoghi in cui vivono le persone, a cominciare dai nomi di vie e piazze, possono dire anche molte altre cose: dal loro status sociale al contesto nel quale si muovono.

A questo proposito, la «battaglia» sul nome delle strade, come sui monumenti, è forte soprattutto negli Stati Uniti, rispetto all’Europa dove simili casi sono numericamente e politicamente meno significativi, e riguarda in particolare il migliaio di vie e piazze ancora dedicate agli «eroi» della Confederazione schiavista del Sud. Ritiene che nello spazio di pochi anni quei simboli di odio saranno davvero cancellati dalle strade d’America?
Questa domanda si è fatta via via più pressante mentre ero intenta a lavorare sul libro, e specialmente dopo la morte di George Floyd lo scorso anno. Attribuire un nome è segno di potere, e lo è sempre stato. E quando ad indicare il nome di una strada c’è quello di un generale confederato, è chiaro come ciò rifletta le idee di quella società su chi detenga il potere e chi no. E visto che è con questo che stiamo facendo i conti oggi in America, è più che sensato voler cambiare quei nomi e abbattere quei monumenti dedicati a coloro che all’epoca sostenevano dinamiche di potere che si basavano sul mantenere in schiavitù altri americani. Tutti i nomi verranno cancellati e tutti i monumenti abbattuti? Non lo so. Ma i movimenti che si battono per questo stanno facendo emergere proprio il modo in cui le scelte di chi deteneva il potere si sono fin qui riflesse nelle nostre strade e nei nostri parchi. E credo si tratti di una prospettiva molto positiva, una nuova e profonda consapevolezza.

Nel libro lei racconta anche lo strano destino che, sempre negli Stati Uniti, sembra toccare alle strade dedicate a Martin Luther King, spesso ubicate in quartieri a maggioranza afroamericana connotati da difficili condizioni sociali, che indicano quanto la lotta per i diritti, civili e sociali, dei neri riguardi tutt’altro che soltanto il passato.
L’eredità della schiavitù, come dei molti anni di discriminazione e segregazione che sono seguiti, restano evidenti nella società americana: nessuno può metterlo in dubbio e del resto almeno in una parte del Paese sembra crescere il desiderio di fare i conti fino in fondo con questa pesante eredità. Ciò detto, non si può parlare della «Black America» come di un gruppo monolitico. Le strade che portano il nome del reverendo King, proprio come gli afroamericani, non sono tutte uguali. Non sono tutte strade soltanto «nere» e non sono solo una parte dell’America nera, ma rappresentano, comprese le contraddizioni del caso, l’America stessa.

Prendendo spunto da vicende accadute a Londra nell’Ottocento come ad Haiti negli ultimi anni durante un’epidemia di colera, lei affronta un tema drammaticamente attuale raccontando come il fatto che tutti gli abitanti di una città possiedano un indirizzo può contribuire a fermare la diffusione di un virus. In che modo?
Come purtroppo abbiamo appreso dalla diffusione del Covid, anche geografia e malattia sono spesso intimamente connesse. Di fronte ad una pandemia, conoscerne la fonte e sapere come si «muove» è uno dei primi compiti di qualsiasi epidemiologo. E quando non puoi usare la posizione delle persone per mappare questa diffusione, combatterla diventa ancora più difficile. Sono impossibili lockdown locali e mirati o anche soltanto localizzare i focolai. Così, per una realtà come quella di Haiti dove pochi abitanti dispongono di un indirizzo, combattere l’epidemia di colera che si sviluppò nel 2010 sull’isola si è rivelato ancora più difficile. Una sfida che già nella Londra vittoriana il dottor John Snow aveva compreso cercando di localizzare le strade e le zone nelle quali la stessa malattia si andava diffondendo.

Il nome di una strada o il civico della stessa sono spesso anche un sinonimo dello status sociale di chi vi abita. Un caso emblematico è quello del palazzo che Donald Trump costruì nel cuore di Manhattan negli anni Novanta: quasi un simbolo di una strategia «narrativa» che l’avrebbe poi portato a promettere di «fare di nuovo grande l’America».
Beh, l’immagine è tutto, non è così? Se non puoi migliorare qualcosa – la tua vita, la tua casa, la tua campagna elettorale, la tua presidenza – puoi semplicemente dargli un altro nome o inventarti uno slogan per farla apparire più importante. In quell’occasione Trump fece di tutto perché l’edificio fosse registrato al numero 1 di Central Park West, mentre in realtà si trovava all’angolo, al 15 di Columbus Circle, perché voleva reclamizzarlo come «il nuovo indirizzo al centro del mondo».

Lei cita lo storico Pierre Nora che ha spiegato come quest’epoca si contraddistingua per la necessità di stabilire un «legame narrativo» tra il presente e il passato che ci rassicuri di fronte all’incertezza e alla rapidità dei cambiamenti. Alla fine dell’indagine contenuta in «Le vie che orientano» che idea si è fatta della funzione che i nomi delle strade potranno avere in futuro?
Molte persone pensano che gli indirizzi digitali sostituiranno quelli reali. Ne dubito, forse solo perché, come ho spiegato nel libro, trovo che abbiano un così grande significato. Piuttosto credo che inizieremo a riflettere sempre più spesso su cosa rappresentano i nomi che portano le strade in cui viviamo. A prima vista le discussioni che sorgono intorno alle figure alle quali è stata dedicata una via sembrano destinate a dividere le comunità, ma io credo che al contrario contribuiscano a crearne di nuove, aiutandoci a capire chi siamo e in cosa crediamo davvero.