La convocazione del Consiglio di ministri il primo maggio, sui temi del lavoro, è marketing, propaganda, fumo negli occhi per coprire una politica che blandisce e asseconda i potentati economici, fa ponti d’oro a lavoratori autonomi e gestori balneari.

Viceversa chiede sacrifici e moderazione salariale ai lavoratori dipendenti, ai precari (giovani e donne), ai pensionati. Un taglio di pochi euro al cuneo fiscale non ribalta un’azione di governo che procede a doppia velocità: alta, per i ricchi, per chi fa profitti, per chi gode di rendite depredando beni pubblici; bassa, per tutti gli altri.

Imprenditori, «capitani coraggiosi», manager, appaiono allineati e soddisfatti. Per loro, la pacchia non è finita. Già con i decreti Aiuti (Conte 2 e Draghi) nei portafogli aziendali sono confluiti 100 miliardi a fondo perduto e altri 300 di prestiti agevolati con garanzia statale. Con l’attuale governo piovono sgravi fiscali contributivi, condoni, depenalizzazioni dei reati tributari.

A questa grande abbuffata corrispondono i tagli al Rdc, la negazione del salario minimo, lo smantellamento progressivo della sanità pubblica, la stretta sulle indicizzazioni delle pensioni. Risorse immense vengono sottratte alla collettività e spostate su capitalisti e rentier. Avanza un’idea di società in cui i diritti (civili e sociali) non appartengono a tutti, ma seguono rigidi criteri gerarchici e di censo.

Lo slogan meloniano «non disturbare chi fa» si riempie di contenuti concreti e appalesa un progetto poggiato su un mix di liberismo e corporativismo, di laissez-faire e misure securitarie, di libero mercato e xenofobia. Giorgia Meloni, non nasconde l’ambizione di voler modellare la «Nazione» secondo le idee e i valori da cui proviene. Aspirazione legittima, coerente con la sua cultura politica. Non c’è alcuna separazione tra ideologia e politica, come pure molti si ostinano a scrivere per giustificare il giudizio positivo sulla premier.

Ci troviamo, piuttosto, davanti ad una destra postfascista che ha una concezione identitaria molto simile a quella dei paesi di Visegrad: l’identità nazionale come recinto chiuso, esclusivo, discriminatorio verso il diverso/altro. Identità e difesa dei confini vengono prima della stessa democrazia.

Il cammino del governo non appare, tuttavia, una marcia trionfale. Si colgono già battute d’arresto e primi segnali di difficoltà. Il malcontento sociale sale. Le misure prese o annunciate aprono crepe nel consenso e forniscono alla sinistra politica e sindacale l’occasione per dar battaglia. Le contraddizioni più evidenti si presentano sul terreno della tenuta dei conti pubblici.

Il debito viaggia intorno al 145 per cento del Pil e l’Italia si trova nella scomoda posizione di dover contrattare con la Commissione europea tempi e modi di rientro nei famosi parametri di Maastricht. Eppure si insiste in una politica di tagli fiscali e regalie agli alti redditi e ai grandi patrimoni. Diventerà sempre più chiaro che la nostra vera emergenza non sono i migranti, bensì i 2800 miliardi di debito sovrano e gli 80 miliardi di spesa per interessi nel 2022, 15 miliardi in più rispetto al 2021.

Il Def calcola che nel 2026 il servizio del debito salirà a 100 miliardi. Soldi in meno per la sanità, la scuola, i trasporti, le infrastrutture, soldi in più per ricchi signori che, comprando buoni del tesoro, di anno in anno finanziano lo Stato. Anche di questo è fatta la gigantesca redistribuzione all’incontrario.

I conti non tornano né finanziariamente né politicamente. La spesa pubblica potrebbe diventare la buccia di banana del castello politico-mediatico-ideologico della destra. conti non tornano né finanziariamente né politicamente. La spesa pubblica potrebbe diventare la buccia di banana del castello politico-mediatico-ideologico della destra. E’ questo il punto debole del governo Meloni. Abbiamo una pressione fiscale pari a quella di Francia e Germania (43 per cento), ma con un Welfare molto più scadente, per qualità ed efficienza. Siamo uno dei paesi più ricchi e sviluppati dell’Europa e del mondo, ma la montagna del debito pubblico rischia di franarci addosso.

Le disuguaglianze sociali e i divari territoriali intanto si aggravano. Per la destra i problemi vengono ora. Si sono esauriti i margini per la spesa facile, a debito, attraverso periodici scostamenti di bilancio. Nel Def mancano perfino le risorse per la flat tax, misura-bandiera. Ci sarebbe il Pnrr, ma non sembra nelle corde di questo governo.

Il ministro Fitto va e viene da Bruxelles per contrattare il ridimensionamento dei programmi concordati. Con il crescere delle difficoltà politiche aspettiamoci un’intensificazione della propaganda identitaria. Alla sinistra il compito di stare in campo sui due fronti: quello ideologico e politico e quello economico e sociale.