Cultura

Dany Laferrière, il funambolo della letteratura

Dany Laferrière, il funambolo della letteraturaStill da video di Laura Hindmarsh, 2016

Incontri Intervista allo scrittore haitiano-canadese che nel 2013 è stato eletto all’Academie française che in «Sono uno scrittore giapponese» (66thand2nd) mette in scena una provocazione letteraria intorno al tema dell’identità. «Come l’arte del funambolo che cammina su una corda tesa nel vuoto, scrivere mi appare ogni giorno di più come la complessa ricerca di un equilibrio»

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 23 marzo 2019

«L’ho fatto per uscire da questo stato di cose imposto, per dimostrare che non ci sono confini… Ero stufo dei nazionalismi culturali. Chi può impedirmi di essere uno scrittore giapponese? Nessuno». Nero, haitiano trapiantato a Montréal, il protagonista dell’ultimo romanzo di Dany Laferrière aderisce perfettamente alla biografia dello scrittore originario di Port-au-Prince che dalla metà degli anni Settanta vive nella metropoli del Québec. Sollecitato dal proprio editore a scrivere un nuovo romanzo, partirà dal titolo. «Se hai trovato il titolo, il più è fatto. Certo, dopo ti resta da scrivere il libro. Ma scrivere è un po’ come coltivare piselli»: una volta piantati i semi non resta che da aspettare.

Ironico, dissacrante, irresistibile, Sono uno scrittore giapponese (66thand2nd, pp. 190, euro 16, traduzione di Francesca Scala) muove da una provocazione voluta per finire con l’interrogarsi sul significato stesso del mestiere della scrittura. Accanto ad un buon numero di eco letterari che attraversano le pagine del libro – e che vanno da Basho e Mishima, passando per Tanizaki e Murakami, fino a Osamu Dazai -, il Giappone del titolo è più che altro una scusa per riflettere sui cliché e il funzionamento dell’industria culturale globale e su come gli stereotipi siano spesso spacciati per «identità». Già prima che ne sia scritta una sola pagina, al solo annuncio della sua prossima, possibile uscita, il romanzo è infatti all’origine di una sorta di querelle internazionale. Mentre il suo autore deve ammettere: «sto seguendo le avventure di Basho alla ricerca della barriera Shirakawa su una metropolitana in movimento a Montreal. Tutto si muove. Tranne il tempo che rimane immobile».

Eletto nel 2013 all’Academie française, Dany Laferrière ha all’attivo oltre una trentina di opere, nelle quali ha raccontato con lucidità e sarcasmo la difficile condizione sociale e politica di Haiti, ma anche la vita degli immigrati in Canada e il razzismo strisciante della realtà nordamericana. Tra i suoi titoli tradotti nel nostro paese: L’Arte ormai perduta del dolce far niente e Tutto si muove intorno a me, la testimonianza in presa diretta del terribile terremoto che ha colpito Haiti nel 2010, entrambi pubblicati da 66thand2nd.

«Sono uno scrittore giapponese» gioca con la sua stessa identità e con l’atto dello scrivere. Come lo definirebbe?
Questo libro tratta di qualcuno che annuncia che sta per scrivere un libro e che, solo per questo, si ritrova protagonista di una sorta di «caso internazionale». Volevo descrivere il febbrile rimestare di animi provocato dalla semplice citazione di alcune tematiche, prima fra tutte quella dell’«identità». Cosa può succedere se un nero si presenta come uno scrittore giapponese?

Tutto ciò si traduce anche in una riflessione sui meccanismi che sovrintendono al funzionamento dell’industria culturale e sul ruolo che gli scrittori e la letteratura possono avere ancora.
Viviamo in un’epoca cardine, quella della Rete, dove è sempre meno chiaro se sia più importante conoscere una determinata cosa o piuttosto «sapere di poterla sapere». È come se avessimo depositato tutta la conoscenza in un apparecchietto e che quindi il problema sia solo quello di avere accesso o meno ad esso. Oltre a questo interrogativo, sembra che il resto del dibattito si svolga soltanto sulla superficie delle cose, senza voler mai approfondire davvero qualcosa. La letteratura finisce così a volte per essere travolta.

Lo scrittore Dany Laferrière

Ma perché ha scelto proprio il Giappone come sfondo per mettere in atto questa sorta di provocazione letteraria?
Amo la cultura giapponese, ma in questo caso evocarla rappresenta più che altro una scusa. Nella mia vita di scrittore, dopo che mi sono lasciato alle spalle oltre trenta libri, sono arrivato ad un punto in cui comincio a recuperare lo stupore di un bambino per le cose che gli accadono. Le domande essenziali sul proprio lavoro arrivano alla fine di una carriera, quando si è scritto moltissimo e si comincia a disfarsi delle tematiche «pesanti», come possono essere la dittatura, i conflitti, l’infanzia con la «i» maiuscola. Le cose si fanno più semplici. È come se alla superficie dell’acqua arrivassero delle piccole bollicine che risalgono dal fondo e queste bollicine sono la letteratura, ciò che ci spinge a scrivere.

In passato, ha dichiarato «voglio essere del paese dei miei lettori». Questo libro fa i conti con le appartenenze, i possibili scambi e intrecci tra culture?
Paragonerei questo romanzo all’esperienza di un funambolo. In genere quando si comincia a scrivere si impiega moltissimo tempo a presentare se stessi e le tematiche che ci abitano, ci angosciano e ci tormentano. Dopo un po’ credo che le cose cambino, che si diventi meno interessati a presentarsi e a presentare tutto ciò che ci si porta dietro, per indagare piuttosto le cose che abitano con intensità i lettori. Così, oggi, ho sempre più voglia di raccontare la tragedia della vita di tutti attraverso quelle che definirei come delle storielle leggere. Come l’arte del funambolo che cammina su una corda tesa nel vuoto, scrivere mi appare ogni giorno di più come la complessa ricerca di un equilibrio di fronte all’emergenza del dolore e della paura.

Nel 2007 lei fu tra i firmatari del manifesto «Per una letteratura-mondo in francese», lanciato dallo scrittore Michele Le Bris, l’ideatore del festival Étonnants voyageurs di Saint-Malo. All’epoca, si era nel pieno della campagna presidenziale di Sarkozy, si voleva difendere l’idea di una cultura «aperta» rispetto agli accenti quasi nazionalisti della «francofonia». È cambiato qualcosa?
Ricordo che firmai quel manifesto soprattutto per la formula «letteratura-mondo», per il fatto di sottolineare, anche se può sembrare a prima vista paradossale che ciò vada ancora affermato, che lo scrivere non può che essere pensato in una dimensione universale, priva di alcuna barriera. In questo senso, il confronto era tra l’immaginare lo spazio della letteratura francese e francofona nel mondo – con un accento se si vuole un po’ imperialista – o piuttosto quello, oggi diremmo globale, di coloro che, ovunque, si esprimevano attraverso questa lingua. Possiamo dire che il tempo ci ha dato ragione. Oggi gli scrittori di tutto il mondo che scrivono in francese occupano il centro della scena. Parlano e condividono un linguaggio comune, quello dei temi, delle forme, della narrazione, della cura dello stile, della scelta delle parole. Il manifesto non era una dichiarazione di principio, segnalava piuttosto un possibile rischio, una deriva che si andava annunciando. In ogni caso credo si possa dire che ha segnato una svolta nel panorama intellettuale e che l’idea che si è affermata è che la lingua francese stia in qualche modo accogliendo «a casa propria» la letteratura di tutto il mondo.

Il giovane razzista che ha compiuto una strage in Nuova Zelanda ha detto di essersi ispirato, tra gli altri, ad un simile gesto compiuto a Quebec City: il mare dell’odio minaccia tutti. La letteratura può rappresentare un antidoto a tutto ciò?
Le rispondo con quello che le sembrerà forse un paradosso. Penso che la letteratura faccia già ciò che lei auspica. Non foss’altro perché obbliga chi scrive e chi legge a stare seduto a lungo, a non agitarsi, a stare in silenzio. Ad attraversare la vita ascoltando, attraverso i libri, la voce di qualcuno che è morto, spesso anche da tanto tempo: si apprezza la vita attraverso la morte. Non solo, la letteratura contribuisce ad abbassare il livello di nervosismo ed aggressività che caratterizza le nostre vite. Riduce il caos che ci circonda. Non si tratta semplicemente del silenzio perché intorno a noi non c’è qualcuno che strombazza, ma di un silenzio sontuoso, attivo, magnifico. Pensiamo a quanti crimini non sono stati commessi grazie a dei libri che sono stati scritti o che sono stati letti. A quante occasioni di crimini mancati abbiamo perciò grazie alla letteratura. Inoltre, pensi che cosa sarebbe stato dell’umanità, che sta già messa piuttosto male, se non avesse immaginato questo sistema geniale di scarico delle pulsioni che alimenta le nostre gigantesche biblioteche. Ecco, la letteratura lo fa già: abbassa il rumore del mondo.

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