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Daniel Kehlmann, l’arte e i suoi demoni

Daniel Kehlmann, l’arte e i suoi demoniL’attrice Brigitte Helm accanto a Georg Wilhelm Pabst nel 1932

Scrittori tedeschi Dal fallimento americano di Georg Wilhelm Pabst, i cui film consacrarono il trionfo di Greta Garbo e Louise Brooks, al prezzo pagato al nazismo per tornare in Europa: «Il regista», da Feltrinelli

Pubblicato 13 minuti faEdizione del 6 ottobre 2024

All’uscita del Doktor Faustus di Thomas Mann, nel 1947, critici e recensori presero a variare con notevole unità di sentimenti e miopia ermeneutica, l’idea che per lo più accompagna ancora oggi l’interpretazione del libro: nella vita del musicista Adrian Leverkühn, protagonista del romanzo, Mann aveva voluto rappresentare la storia del patto faustiano stretto dalla Germania con Hitler e il nazionalsocialismo. La gara di acume fra i non troppo sagaci interpreti, che nel giro di due anni mandarono in stampa la bellezza di quattrocento recensioni, si ridusse rapidamente a una competizione per la ricerca della più arzigogolata legittimazione di questa lettura.

Per sostenerla furono scomodati, letteralmente, il cielo e l’inferno, sicché il romanzo sulla musica si trasformò presto in un romanzo teologico. Praticamente nessuno, neanche fra i meglio intenzionati, si accorse che una simile interpretazione contraddiceva tutto quanto Mann aveva detto, scritto e dichiarato pubblicamente in merito alla responsabilità storica dei tedeschi e alla loro abdicazione etica e politica.

E a nulla valsero le voci, assai rare, di coloro che cautamente fecero osservare che se nella storia di Leverkühn – come in quella di Faust – c’era di mezzo il diavolo, le colpe del musicista trovavano una giustificazione metafisica che riduceva di parecchio la loro umanissima portata. Chi mai potrebbe opporsi al volere del diavolo? Sarebbe stato giusto rimettere Leverkühn alla benevolenza divina e garantirgli quella stessa assoluzione dall’alto che pure era spettata al suo predecessore. Nel suo romanzo, insomma, Thomas Mann aveva assolto la Germania, dopo qualcosa di simile a una bella ramanzina, attribuendo alla fatalità e ai poteri del demonio l’intero peso delle tragedie che essa aveva provocato.

Ci sarebbero voluti un po’ più di vent’anni perché qualcuno (in Polonia) facesse notare che a raccontare la storia di Leverkühn, nel romanzo, era un tipo alquanto ambiguo, il pacioso filologo e mediocre biografo Zeitblom, il quale pretendeva di raccontare cose che a lume di logica doveva ignorare mentendo spudoratamente, si dichiarava ostile al regime pur avendo due figli convinti nazisti per i quali nutriva tenere preoccupazioni, condivideva del regime medesimo gli slogan e le parole d’ordine, si dichiarava scevro da tutte le colpe che, in compenso, accollava a colui che con stucchevole retorica sentimentale presentava come il suo grande e geniale amico e, soprattutto, con la sua storiella faustiana otteneva proprio il risultato di perdonare Leverkühn e con lui la Germania degli sfracelli in cui essa aveva precipitato l’Europa e il mondo.

Thomas Mann, insomma, non aveva voluto rappresentare, nella storia del suo musicista, la grandezza e la dannazione del suo paese natale (che dopo l’acquisizione della cittadinanza americana non era neanche più il suo paese), ma la miseria intellettuale e morale dei tedeschi che, come Zeitblom, pretendevano di far dimenticare la loro supina accettazione del regime e la loro complicità nelle sue nefandezze inventando storielle diaboliche a vantaggio di un paese più che disposto ad accoglierle accompagnandole con il lamento ipocrita sulle proprie sventure.

Daniel Kehlmann, a cui fu giustamente attribuito alcuni anni fa il Premio Thomas Mann, ha scritto, con il suo ultimo romanzo, una specie di anti-Faustus: non la biografia mendace e artefatta di un artista inesistente ridotto a capro espiatorio di ogni male dal suo amico-biografo, ma la storia di un artista realmente esistito che riassume in sé tutte le colpe dei Leverkühn e degli Zeitblom di questo mondo. Il regista, apparso un anno fa in Germania con grande clamore e accolto da immediato e meritatissimo successo (ora da Feltrinelli nella traduzione di Monica Pesetti, pp. 384, € 22,00) è basato sulla storia di Georg Wilhelm Pabst, il grande regista di Via senza gioia e del Vaso di Pandora, i film che consacrarono il trionfo cinematografico di Greta Garbo e Louise Brooks.

Per la storia, Pabst, diventato celebre grazie alle sue pellicole dai forti tratti sociali e psicologici, caratterizzati da una sensualità scandalosa per i suoi tempi e da tematiche che lo identificavano – oltre che con le dominanti tendenze espressioniste e neo-oggettiviste – come regista di sinistra (era soprannominato «Pabst il rosso» che per ragioni di pronuncia suona in tedesco come «il papa rosso»), Pabst fu sorpreso dalla presa del potere di Hitler in Francia, dove era intento a girare un film e decise, come altri intellettuali tedeschi, di rimanere in esilio.

Dalla Francia si recò poi a Hollywood, dove non trovò un ambiente adatto alla sua indipendenza creativa e non poté ripetere i suoi precedenti successi. Pur deciso a rimanere in America, Pabst si recò a trovare la madre del 1939 e, sorpreso dalla guerra, fu costretto a restare in Germania dove prese a girare film storici e popolari inevitabilmente compromessi con l’ideologia del regime. Il romanzo di Kehlmann comincia con il fallimento americano di Pabst e segue tutta la vicenda del suo ritorno in Europa illuminandone le grandezze, le spaventose miserie, le ambivalenze senza mai cedere al moralismo. Lo aiuta la vicenda ancor oggi misteriosa dell’ultimo film girato da Pabst durante la guerra – forse il suo ultimo capolavoro, andato perduto – che fa da filo conduttore alla trama. Il Pabst di Kehlmann, proprio come lo Zeitblom di Mann, è un uomo bonario, simpatico, dapprima intransigente e poi sempre più spaventato, disposto al compromesso per paura, per necessità e poi per scelta.

Anche lui è circondato dalla guerra e dai rappresentanti del regime fra cui il custode del suo castello austriaco, ma anche un figlio, e anche lui finisce per accettare tutte le condizioni che la realtà circostante gli impone. Ma Pabst è anche il Leverkühn di Kehlmann: a tentarlo non è certo il diavolo, ma un portavoce dei desideri del regime che, già in America, gli prospetta la via di un ritorno dorato in Germania, come fuoriclasse riconosciuto e fiore all’occhiello di un regime in cerca di autori. Persino il suo passato di intellettuale di sinistra, persino il fatto di aver girato L’opera da tre soldi di Brecht può essergli perdonato.

Se il diavolo non esiste è la storia, con i suoi esecrabili rappresentanti, a incaricarsi di trascinare l’arte all’inferno. E all’inferno Pabst sprofonda davvero, dapprima opponendo tutta la resistenza di cui è capace, ma poi cedendo completamente. Man mano che gli appare chiaro come in nessun altro luogo – ammesso che possa mai raggiungerlo – gli sarebbero dati mezzi anche solo paragonabili a quelli che ottiene per realizzare i suoi film, il regista soccombe e soccombe nella più illusoria delle forme. Riesce perfino a ritrovare l’entusiasmo, che si è ridotto ormai alla felicità per la riuscita di una ripresa di particolare difficoltà tecnica o per i felice risultato attoriale di una scena.

Il cinema torna a occupare la vita del regista, ma a che prezzo? Cosa è lecito accettare per il diritto di esercitare la propria arte? Cosa arriverà ad accettare Pabst pur di poter essere l’unica cosa che sa essere? La dannazione dell’arte, il suo lato demoniaco sta nel non riuscire ad accettare nulla al di sopra di sé stessa, a non concepire il proprio silenzio che come una scelta e non come un dovere. Quanto più il regime lo compiace tanto più Pabst sprofonda nell’orrore: se il prezzo dell’arte è la rinuncia a qualsiasi limite morale, allora ogni abiura è lecita, ogni bassezza è un sacrificio offerto in omaggio al miraggio del capolavoro.

La cultura tedesca dà il suo meglio – o per lo meno realizza grandi cose – quando mette in scena conflitti universali. L’antagonismo di etica e arte è la polarità che attraversa tutto il romanzo di Kehlmann, con lucidità e, al contempo, con una leggerezza quasi miracolosa. Mai, fino alla fine, Kehlmann rinuncia all’ironia, quando non all’umorismo o all’aperto sarcasmo. Il romanzo inanella scene memorabili e anche esilaranti di cui sono protagonisti Leni Riefenstahl o Bernhard Minetti, il grande mattatore del teatro tedesco prima e dopo la guerra. E anche le figure più spaventose sono deformate da Kehlmann fino a diventare maschere grottesche, portatrici di orrore perché inconsapevoli dell’orrore e, quindi, incapaci di esserne vere rappresentanti. Nella vorticosa giostra del romanzo anche il lettore rischia di perdere la misura del giudizio: e questo costituisce il risultato formale più notevole del Regista.

Kehlmann è, da sempre, un grande maestro delle prospettive. Ma qui i personaggi incidono con il loro continuo alternarsi sulla visione del lettore. Alcuni dispongono unicamente del monologo interiore come strumento espressivo, altri sono dominati dallo sguardo o dalle percezioni sensoriali, dal ricordo e persino dalla perdita della coscienza. Tutto succede in un’alternanza di sfolgoranti luci di scena e cupi ambienti notturni o addirittura sotterranei, infernali appunto. Il regista è forse il miglior romanzo tedesco dell’ultimo decennio e poiché non ci sono medaglie senza un rovescio sia permessa, da ultimo, un’osservazione critica.

Non si capisce perché le case editrici sembrano provare piacere nel distruggere i titoli delle opere che traducono. Il romanzo di Kehlmann si intitola, in tedesco, Lichtspiel, una parola che significa semplicemente «film», ma che, scomposta nelle sue due parti – come avviene sulla copertina dell’edizione originale – si può leggere anche come «gioco di luce» o, al plurale, «gioco di luci». Si potevano immaginare, in italiano, innumerevoli titoli degni del capolavoro che avrebbero avuto l’onore di designare: perché ridursi al più insignificante e anonimo di tutti?

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