Cultura

Nel buio di interni berlinesi

Nel buio di interni berlinesiGisèle Vienne, «L’Etang», 2020 foto di Estelle Hanania © VG Bild-Kunst, Bonn 2024

Cartografie Vagabondaggio nella città tedesca fra architetture del Terzo Reich, imitazioni di rifugi anti-aerei e apocalittiche profezie artistiche

Pubblicato circa un mese faEdizione del 4 ottobre 2024

Una lunga misteriosa tavolata nera, con candele riflesse nei bicchieri di cristallo, ci accoglie nell’oscurità. Non è un cenacolo teosofico ma l’opening di Natural Beauty. Curated Nature (fino al 2 febbraio 2025), una mostra di opere antiche, fiori essiccati, piume, installazioni, quadri di Cy Towmbly, curata da Désiré Feuerle. È un percorso che si rivela lentamente, tra tè, profumi d’incenso e adattamento ottico al buio. La Feuerle Collection, che ha sede nell’unico bunker hitleriano rimasto intatto a Berlino dopo la Seconda Guerra Mondiale, è un’immersione fisica nel Tao, sintesi di pace e guerra. Da un lato l’architettura bellica del Terzo Reich e dall’altro la spiritualità sprigionata da Budda e Bodhisattva appagati. Al piano inferiore, prima di affrontare l’oscurità completa, ci si immerge nel brano Music for Piano #20 di John Cage. Poi comincia l’escursione tra opere che trasformano il bunker in un tempio laico, in un dialogo atemporale tra organico e inorganico.

LA STAGIONE DELL’ARTE a Berlino comincia così nel buio delle arterie del corpo sociale di questo quarto di secolo dalle derive crudeli e irrazionali. L’Art Week, che dà il via alla stagione, scoperchia le aree tenebrose di un mondo sconfitto, quello della pancia dell’Occidente, che si è focalizzato sulla nostalgia violenta della riscossa nazionalpopolare.
Welcome to Berlin, la capitale democratica, cool e global dell’arte, della democrazia e della Generazione Erasmus. Alla Haus am Waldsee, i puppets di Gisele Vienne, coreografa e filmaker, sono teenager zombizzati a grandezza naturale, con occhi spenti, felpe firmate, Iphone e lattine Monster Energy.
Jerk, che significa stronzo, è l’opera più indigesta di Vienne che inscena – in film, installazioni e danze– i delitti simbolo delle generazioni X, Y, Z perché «la violenza è un codice», è una frattura psichica. I puppets sono lì in mostra per altri tre mesi, sono la nostra dissociazione e ricordano i personaggi della Classe morta di Tadeusz Kantor più crudi e rudimentali.

L’OSCURITÀ avanza man mano che ci si inoltra nei musei e nelle fondazioni. La rassegna Pier Paolo Pasolini. Porcili – alla Neuer Berliner Kunstverein curata da Giuseppe Garrera e Cesare Pietroiusti (fino al 10 novembre) – apre un altro capitolo inquietante e ancora profondamente misterioso. Esplora il corpo del poeta, le parole e le reazioni del mainstream a ogni sua opera. La parete antistante lo spazio espositivo è interamente scritta, ma non fornisce spiegazioni o curriculum, bensì elenca l’inusitato numero di processi intentati contro Pasolini da parte di un paese bigotto, autoritario e feroce. «Non ho rapporti con la borghesia – diceva lo scrittore – mentre la borghesia ha avuto rapporti con me soltanto attraverso le sue due fonti di potere: la magistratura e la polizia».

ABITI E FOTO DI SCENA, frammenti di film, libri e la voce attoriale che ripete in loop «Maria, Maria…» nel film La Ricotta, riportano agli anni 60. I rotocalchi vintage, dileggianti e pettegoli, rendono l’idea dell’offesa perpetua e del linciaggio semantico che si tradurrà nello scempio finale del corpo del poeta. Il delitto, tutt’oggi irrisolto, conferma la discesa agli inferi da lui ripetutamente preconizzata.
Se, nell’ultima intervista rilasciata a Furio Colombo il pomeriggio dell’1 novembre 1975, Pasolini annunciava: «Siamo tutti in pericolo», gli fa eco cinquant’anni dopo, un’altra frase apodittica che dichiara The end of the world, la fine del mondo, titolo dell’installazione site-specific di Alfredo Jaar al Kindl Center of Contemporary Art. Curata da Kathrin Becker, l’opera è esposta nell’enorme capannone industriale cubico della Kesselhaus (fino al 1 giugno 2025). La sproporzione tra il gigantismo crepuscolare dello spazio, illuminato solo da una luce rossa, e la piccola opera posta al centro dell’edificio, in una teca da gioielleria, è stridente.

NON C’È QUASI NIENTE da vedere, si viene colti da una sensazione di disagio, smarrimento e fine dei tempi. La teca custodisce i dieci metalli preziosi la cui massiccia estrazione è frutto di un «dirty business», uno sporco affare, il più sporco. L’accaparramento delle risorse in oggetto devasta irrimediabilmente i territori, crea schiavitù infantile e guerra. Ma l’Occidente non può farne a meno, deve digitalizzare il mondo, controllarlo e costruire armi per distruggerlo.
Nella teca brilla l’opacità di piccoli lingotti di cobalto, terre rare, rame, stagno, nickel, litio, manganese, coltan, germanio e platino, compattati in un quadrato di 4x4x4 cm. Scrive il teorico geopolitico Adam Bobbette nella presentazione: «Il cambiamento climatico è una guerra per le risorse, i conflitti stanno divampando per costruire tecnologie per le rinnovabili. La spinta per estrarre minerali preziosi contribuisce al genocidio. Le compagnie minerarie traggono profitti dalla distruzione ecologica e delle varie etnie. La transizione green è colonialismo, i minatori vengono ridotti in schiavitù, trasformandosi in popolazioni sacrificabili. (…) Il Net Zero Industry Act implica violenza geologica che spezza, schiaccia, brucia il terreno. Le catene di approvvigionamento globale creano zone ecologiche morte, liquami tossici, orizzonti avvelenati e catastrofi ancestrali».

Rirkrit Tiravanija, Untitled-1995; Bon voyage monsieur Ackermann, courtesy the artist.

IL VIAGGIO BERLINESE continua poi con un breve sprazzo di luce alla Gropius Bau grazie alla personale di Rirkrit Tiravanija: Happiness is not always fun, curata dalla direttrice Jenny Schlenzka (chiuderà il 12 gennaio). Opere coloratissime, oggetti, resti di performances, radio, bottiglie di coca cola, fornelletti, tavoli da ping pong e uno stand con batteria e tastiera invitano il pubblico a interagire. La logica relazionale, concepita come possibile «via d’uscita», si propaga anche nell’assenza dell’artista estendendo e moltiplicando le possibilità creative delle opere.
Alla Julia Stoschek Foundation altre due mostre si svolgono in penombra o nella negazione dell’immagine. La prima è di Theodoulos Polyviou sull’identità nazionalista cipriota, l’altra è una collettiva, After Images (fino al 27 aprile), che spinge il visitatore a utilizzare tutti i sensi e a ridurre la vista. «Quanto le immagini – si chiede la curatrice Lisa Long – possono perpetuare la violenza?».

Il percorso si snoda dalle carte fotosensibili appese a cascata di Lotus L. Gang, che cambiano colore con il tempo, al Touching Clouds di Norbert Pape e Simon Speiser in XR, realtà estesa che permette, indossando i dispositivi appositi, di vedere l’ambiente circostante in b/n e gli oggetti virtuali fluttuanti a colori. La dissoluzione della forma si ripropone nelle installazioni di Rosa Barba, nella macchina per bolle di sapone di David Medalla, negli specchi coperti di Giovanna Repetto e nei monitor con l’immagine rivolta al muro di Carsten Nicolai.

MA L’ESPERIENZA più intensa è nella sala del duo Labour (Farahnaz Hatam e Colin Hacklander) a metà tra un cinema e un rifugio antiaereo. Ci si sdraia sulla moquette e l’ unico oggetto presente, una specie di stelo biomorfico, viene illuminato e cambia forma e carattere a seconda della musica e della luce che lo modella. L’ambiente è nebbioso e buio. Accadono micro-cambiamenti che riportano al lettrismo. Tutto è lento e l’arte sembra davvero invulnerabile.

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