«Votare? E che voto a fare, per perdere tempo?». Abdul Karim non ha dubbi. Prender parte alle elezioni nazionali che si tengono oggi in Bangladesh non ha senso. Il risultato è già scritto. La vittoria è in tasca alla prima ministra Skeikh Hasina, leader del partito di governo Lega Awami. La donna più amata, temuta, odiata e osannata del Bangladesh, Paese da 170 milioni di abitanti che lei, figlia di Sheikh Mujibur Rahman, l’uomo dell’indipendenza dal Pakistan nel 1971, assicura di condurre verso un futuro prospero e felice.

È lo «Smart Bangladesh» di cui parla nei comizi elettorali mentre l’opposizione guidata dal Partito nazionalista (Bnp) chiama al boicottaggio, dopo aver a lungo chiesto le sue dimissioni e un governo di transizione per gestire le elezioni, formula istituzionale usata più volte in passato e poi abrogata unilateralmente da Hasina nel 2011, due anni dopo essere tornata al potere.
PER LE STRADE di Dacca, da mesi domina l’incertezza: elezioni sì, elezioni no, elezioni forse. E poi l’economia. «Un anno fa vendevo un chilo di queste mele a 120 taka al chilo (circa 1 euro, ndr), ora le devo mettere a 250», brontola Karim, gestore di una bancarella di frutta sul sadarghat, il lungofiume della capitale. «Ogni cosa è aumentata, dal riso alla benzina. Ho quattro figli e non so come fare».

Lo Smart Bangladesh di Hasina non brilla più, almeno dalla metà del 2022. Conta la guerra russa all’Ucraina e l’impennata dei prezzi per energia e cibo, che hanno portato l’inflazione al 10 per cento di media, perfino maggiore sul cibo. Ma contano anche le politiche fiscali e monetarie del governo, sempre più a corto di valuta estera. Tanto che per evitare una crisi nella bilancia dei pagamenti, nel giugno 2022 ha chiesto al Fondo monetario internazionale un prestito da 4,7 miliardi di dollari. Mostrando le crepe di uno sviluppo tutt’altro che inclusivo, nascosto dai dati snocciolati da Hasina: il prodotto interno lordo cresciuto a una media del 6-7 per cento annuo, il Bangladesh seconda economia dell’Asia meridionale dopo l’India. Una crescita viziata dalla corruzione di un’oligarchia che, certa della propria impunità, drena e trasferisce all’estero i capitali.

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«SIAMO UN PAESE senza regole, con un governo senza regole. Non c’è cosa o persona che non sia corrotta. Di onesto rimane solo l’Islam», sostiene convinto Kazi Lokman. Ventisette anni, viso affilato, non trovando lavoro si è messo a scarrozzare i clienti sulla sua moto, da una parte all’altra di questa megalopoli da 18 milioni di abitanti. Al solito congestionata, ha respirato durante i primi scioperi e blocchi del traffico con cui l’opposizione ha provato per settimane a convincere Hasina che il popolo era dalla sua parte. Hasina ha tenuto duro, al solito. E il 15 novembre, mentre le ambasciate straniere, in primis quella statunitense, premevano per un dialogo, è arrivato l’annuncio. Nessun posticipo. Elezioni fissate al 7 gennaio, oggi. Senza l’opposizione, che chiama alla disobbedienza civile. E con il rischio di ulteriori violenze.

SONO 120 MILIONI i votanti registrati, 15 milioni coloro che potranno votare per la prima volta, chiamati a eleggere i 300 membri del parlamento. Settecentocinquantamila i poliziotti dispiegati, a cui si aggiungono i membri dell’esercito, della Guardia costiera e di confine. E del Rapid Action Battalion (Rab), il battaglione delle forze speciali famigerato per gli abusi. Alla fine del 2021, attribuendogli gravi violazioni dei diritti umani, tra cui alcune esecuzioni extragiudiziali, Washington – a lungo sostenitore del Rab in funzione anti-terrorismo – gli ha imposto sanzioni. Una delle prime misure a segnalare il cambio di rotta dell’amministrazione Biden. Che ha fatto del Bangladesh, partner strategico nell’area dell’indo-pacifico, un banco di prova della sua politica estera fondata sull’enfasi e sulla promozione, selettiva, dei diritti umani all’estero.

FORTE DEL SOSTEGNO di New Delhi, Pechino e Mosca, Hasina ha gridato al complotto americano e ha tirato dritto. Ma la sua vittoria è momentanea, apparente. La repressione violenta delle manifestazioni, inclusa la grande marcia del 28 ottobre finita in scontri e morti (incluso un poliziotto) e seguita dalla più grande campagna di arresti arbitrari nella pur turbolenta storia del Bangladesh, ha rafforzato il Bnp. Capace di risvegliarsi da un letargo decennale, di smarcarsi dall’abbraccio troppo vincolante del partito islamista Jamaat-e-Islami e di allargare il fronte antigovernativo. Quella di Hasina è una vittoria apparente anche perché non le sarà facile vincere, con mezzi leciti, l’astensionismo e la crescente disillusione. Sopratutto dei giovani.

«La politica non ci interessa e non ci piace», rispondono quasi in coro Lamia Atea, ventottenne laureata in lingue alla Bangladesh University, un’università privata della capitale, e Utpal, coetaneo laureato alla Bangladesh University of Textiles. «È solo una pratica per accumulare potere e soldi. Non è fatta per il bene della popolazione», sostiene Atea. Che è sicura: non voterà. «Cosa vogliamo? Più democrazia, maggiore trasparenza e più libertà, per creare qualcosa di nuovo», aggiunge Utpal. Ancora incerto se votare o meno.

L’affluenza è un bel problema per Hasina, tanto che secondo alcune fonti il governo avrebbe minacciato, tramite i rappresentanti distrettuali, di togliere i sussidi finanziari ai residenti che non si recano alle urne, depennandoli dalla lista dei beneficiari. Nel 1996, quando la Lega Awami ha boicottato le urne, l’affluenza è stata del 28 per cento. Nel 2014, in quelle boicottate dal Bnp, del 39 per cento. Hasina non può fare di meno. Il messaggio del suo entourage è chiaro. Anche senza il Bnp, le elezioni saranno plurali e partecipate. Dei 44 partiti ufficiali, 29 competono, di cui 14 nella coalizione guidata dalla Lega Awami. A contendersi i 300 seggi, 2.700 candidati.

DIETRO I DATI, qualche trucchetto. Tra i candidati, 400 sono esponenti della Lega Awami, ma non compaiono come tali. Prima scartati, sono stati ripescati per figurare come “indipendenti”. Mentre il tentativo di spaccare il Bnp non ha funzionato. Un po’ meglio con la proposta agli oppositori incarcerati: rilascio in cambio della candidatura. Tra i pezzi grossi del Bnp, ha accettato il vice-portavoce Shahjahan Omar. L’annuncio della sua candidatura è avvenuto il giorno successivo al rilascio.

Sulla scheda, accanto al suo nome, la barca, simbolo della Lega Awami. Che pure ha ancora sostenitori. «Voteremo senz’altro», affermano due sessantenni, pochi passi più in là rispetto al negozio di frutta di Abdul Karim, sul lungofiume della città vecchia. Anche loro lamentano l’inflazione, l’aumento dei prezzi, le difficoltà a far quadrare i conti. Ma Hasina non ha colpe. «Voteremo convinti per la Lega Awami». Perché? «Beh, perché vincerà, ecco perché!», concludono divertiti.