Che Gogol’ fosse un funambolico buontempone, ossessionato da svariate fisime, lo si poteva intuire da un discreto numero di indizi, disseminati tanto nella sua opera letteraria quanto nell’aneddotica fiorita intorno a lui. Con la Gogoliana di Vladislav Otrošenko, pezzo forte della raccolta di brani di questo scrittore russo contemporaneo tradotti con maestria da Mario Caramitti in Storia segreta delle creazioni (disegni di Jurij Petkevich, Marietti, pp. 191, € 28,00) siamo di fronte alla più brillante, esilarante e partecipe ricostruzione finzionale della sua figura che sia mai stata messa a punto in tempi moderni.

Dai dieci bozzetti che la compongono emerge il ritratto indelebile di un Gogol’ altalenante tra grevissimi torpori e improvvisi, focosi risvegli della sua teatrale immaginazione. Un personaggio disarmato e truffaldino al tempo stesso, dall’olfatto finissimo, tanto spesso preso dal «desiderio sfrenato di farsi tutto naso»; capace di intrattenere relazioni decisamente insolite («volubili, burrascose e inattingibili») con il suo passaporto, che assurge a dimensioni di «archetipo junghiano», come di abbandonarsi, nel 1852, a una morte in tutto e per tutto letteraria, sopraggiunta per «auto-convincimento».

La stesura della seconda parte delle Anime morte è la chimera intorno a cui ruota buona parte di queste narrazioni, con gli scorci della «sua» paradisiaca Roma – unico angolo al mondo in cui Gogol’ poteva davvero scrivere della Russia – giustapposta all’infernale Germania, che altro non era per lui se non «il puzzolentissimo rutto del più disgustoso tabacco e della più fetente birra», un luogo in cui la scrittura del «poema in prosa» gli risultava infattibile. Lo scrittore scaraventerà il manoscritto nel fuoco con lo stesso gesto di crudeltà e raccapriccio con cui da bambino aveva gettato nel lago un gatto. L’incapacità/impossibilità di chiudere quell’opera si fa tema dello spassoso bozzetto numero cinque, imbastito a partire da scarne testimonianze memorialistiche altrui, pretesti per fuochi d’artificio verbali che si innescano su micce di purissima fattura gogoliana: Otrošenko moltiplica il grottesco, con piglio da filologo-giallista lo dilata in vortici fatti delle stesse giravolte di parole del suo modello ottocentesco. E dalle viscere di Gogol’ in persona sembra partorita la cascata di variazioni sul «sosia», l’usurpatore «sconclusionato e spiantato» germinato da una lettera autografa del 1847, quel «qualche altro Gogol’» che sicuramente aveva incassato la somma di denaro a lui destinata e di cui si erano perse le tracce…

La raccolta è assemblata da Caramitti con pezzi quanto mai dissimili, ma ispirati da una comune visione della scrittura come girandola di mistificazioni e travisamenti linguistico-letterari, plasmata su fantasmagorici condensati di cliché rovesciati. Si parte con una sezione imperniata sulle inverosimili etnie assembrate intorno all’ancestrale edificazione di una babelica Torre di Nimrod: qui vengono coniati i più mirabolanti, non meno illogici repertori linguistici, naturalmente inventati di sana pianta. Seguono le dissacranti vignette dedicate a Catullo, in cui spigolature da erudito e trivialità si mescolano in parti uguali: il poeta veronese rivive nel deflagrare lievemente turpe dell’ispirazione, e Otrošenko escogita backstage paradossali per i suoi carmi più intramontabili.

Quasi modellati sul Vij di Gogol’ appaiono i dieci improbabili feticci germogliati da pure fantasie toponomastiche e radunati in Figure del Don, altrettanti medaglioni scaturiti dalle pieghe di una storia millenaria, miniature di personaggi chiamati a vita letteraria ibridando luoghi ed epoche remotissimi: il fabbro che «aggiusta la steppa a colpi di martello, ‘la ripara perché non scricchioli’»; il Fedor che si crede un airone della piana alluvionale del delta del Don; un «cercatore della felicità» – di chiara ascendenza platonoviana – che insegue i cespugli rotolanti.

E proprio a un Platonov portato alle più estreme, scomode conseguenze della sua lingua da «eunuco dell’anima», con una compassione quasi sadica per le sue figure di reietti, sembra a tratti di trovarsi di fronte, in queste pagine: non per nulla l’edizione russa (Tajnaja istorija tvorenij) da cui è tratta questa antologia, che da essa prende il nome, includeva anche due pezzi dedicati allo scrittore sovietico scomparso nel 1951.

Non manca un filo di autointertestualità da seguire da parte dei più appassionati, come fa notare il curatore, che di Otrošenko aveva presentato nel 1997 il trittico di racconti Testimonianze inattendibili e poi nel 2004 Didascalie a foto d’epoca, entrambi per Voland, entrambi espressione di una inesauribile verve narrativa, chiamata a scoperchiare l’agonia del romanzo. La traduzione ingaggia un duello ad armi pari col suo sorprendente originale, e ci regala un testo massimamente giocoso, degno di quel gusto per la messa a nudo dell’assurdo e l’inseguimento del nonsense che, da Vjazemskij a Charms, ciclicamente si ripresenta nella letteratura russa.