Dalla parte degli oppressi o contro gli oppressori?
Opinioni Se la sinistra scorda le cause di una guerra (e altre oppressioni: i palestinesi). Ovvero il sì di Carola Rackete all’Europarlamento perché l’Ucraina usi le armi anche in territorio russo
Opinioni Se la sinistra scorda le cause di una guerra (e altre oppressioni: i palestinesi). Ovvero il sì di Carola Rackete all’Europarlamento perché l’Ucraina usi le armi anche in territorio russo
La sinistra è dalla parte degli oppressi. Putin ha invaso l’Ucraina, opprimendone il popolo. Quindi è giusto votare sia per l’invio delle armi in Ucraina sia per il loro uso in territorio russo.. Con questo sillogismo, Carola Rackete – eletta al Parlamento Europeo con Die Linke – ha pubblicamente giustificato il suo voto a favore dell’invio di armi in Ucraina. Sulla stessa posizione, ha aggiunto, della sinistra dei paesi scandinavi: Finlandia, Svezia e Danimarca. Il sillogismo è però fuorviante. La sinistra non è solo o tanto dalla parte degli oppressi, altrimenti sarebbe indistinguibile dal buon samaritano o da una qualsiasi organizzazione caritatevole.
Essa è, o piuttosto dovrebbe essere, contro gli oppressori. “Forte il pugno che colpirà In ogni paese in ogni città. Chi cammina sopra ai corpi. Violenta le culture, cancella i ricordi (…). Come chi combatte col cuore, la causa dei poveri contro l’oppressore”, cantava nel 1992 la “Banda Bassotti” in “Figli della stessa rabbia”.
Contro l’oppressore, non a favore degli oppressi. La differenza è sostanziale, non formale. Perché è solo nel secondo caso, quando cioè l’azione politica è indirizzata contro l’oppressore, che emergono i rapporti di potere, le logiche di potenza, gli interessi economici e i meccanismi che caratterizzano l’arena internazionale. Si delineano quindi le cause della guerra, la posta in gioco e le strategie degli attori.
Guardare agli oppressi dimenticando gli oppressori, invece, ha l’effetto opposto. La torsione etica è un pessimo succedaneo dell’analisi politica e del rapporto teoria-prassi. Intervenire politicamente nella regolazione dei conflitti internazionali non equivale a prestare – più che meritoriamente – soccorso al comando della Sea-Watch 3. Traslare la stessa logica da un contesto all’altro significa, appunto, ometterne le differenze fondamentali, nonché sovrapporre ruoli, responsabilità e logiche d’azione molto diverse.
La redazione consiglia:
Bruno Accarino, il filosofo che interrogava il marxismoSe non c’è dubbio alcuno che il popolo ucraino sia oppresso dall’invasione di Putin, è però più che legittimo dubitare che Putin sia l’oppressore solitario, mosso da una incontenibile volontà di conquista – se non da turbe mentali – e indifferente per scelta unilaterale alle regole sancite dal diritto. Significa, in questo modo, non vedere che l’arena internazionale non è guidata dalla morale e neppure dalla forza del diritto internazionale. Perché se così fosse non staremmo assistendo al massacro del popolo palestinese e al bombardamento dei civili libanesi. Perché se così fosse non avremmo assistito alla progressiva delegittimazione dell’Onu, definita pochi giorni fa da Netanyahu una «sprezzante farsa e una «palude antisemita». La complicità del blocco occidentale e il tono assolutorio con cui si giustificano centinaia di morti civili, hanno definitivamente demolito la possibilità di ogni manicheismo bene/male.
Ciò che si scorge via via sempre più chiaramente è che senza indirizzare l’analisi e l’azione politica contro gli oppressori, diritto, valori e morale svolgono solo una funzione ideologica: coprono cause e interessi, costringono a dividere il mondo in buoni e cattivi, assegnano maschere e allestiscono scenografie rassicuranti per chi – come Carola Rackete – trasla in modo meccanico la logica del soccorso e dell’aiuto al contesto politico delle istituzioni sovranazionali.
Nell’intervista, Rackete aggiunge poi che il suo voto è motivato dall’idea che non possa esistere «pace senza giustizia». Anche in questo caso, una pace giusta dovrebbe essere l’obiettivo della sinistra. Nuovamente, le implicazioni dell’affermazione sono piuttosto diverse se la prospettiva è per “l’oppresso” o contro “l’oppressore”. Nel primo caso, infatti, la conseguenza è che le armi sono necessarie per raggiungere l’obiettivo di strappare i territori ucraini occupati alle truppe russe e restituirle così al popolo ucraino oppresso. Affermazione coerente con l’idea di Von der Leyen di «battere la Russia sul campo».
Mentre se il problema da affrontare è prima di tutto “contro l’oppressore”, allora lo sforzo non è quello di scacciare oggi Putin dalle terre conquistate, ma di chiedersi cosa fare ora dopo aver fallito nel negoziare allora per non farlo entrare. Negoziare, prima dell’invasione, le condizioni di sicurezza reciproche per la costruzione di un assetto di potere adeguato a un mondo ormai privo di un’unica potenza egemone. Perché l’oppressione del popolo ucraino è incominciata da quella mancata decisione.
Essere contro l’oppressore significherebbe, quindi, almeno prendere atto di quell’errore tragico e riconoscere che i meccanismi dell’oppressione coinvolgono anche noi, le nostre istituzioni e i nostri interessi.
Se la guida dell’azione deve essere nel diritto internazionale e nella bussola morale della “pace giusta”, occorre allora chiedersi chi e perché oggi lavora affinché questi meccanismi non funzionino; chi delegittima le istituzioni sovranazionali; chi non riconosce le regole e le organizzazioni deputate all’applicazione del diritto internazionale.
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