L’attuale governo di Giorgia Meloni ritiene che una delle strade maestre per contrastare la fusione delle calotte polari e dei ghiacciai perenni innescata dai cambiamenti climatici, sia quella di ricorrere a un altro tipo di fusione: quella atomica. La presidente del Consiglio dà per sicura la realizzazione di una tecnologia che, in realtà, nell’arco di settanta anni non è ancora riuscita a oltrepassare la soglia della certezza scientifica, prima ancora che della speranza industriale. E visto che nessuno è oggi in grado di quantificare quanto ci è costata e ci costerà ancora l’avventura nucleare italiana del passato, sarebbe il caso che questo nuovo azzardo fosse dotato almeno di stime “ex ante” (non “ex post” e a piè di lista, come invece avvenuto finora) sui costi economici e ambientali che verranno imposti ai cittadini. In pratica si tratta di costruire nel nostro Paese e su questo pianeta dei costosissimi impianti nucleari che dovrebbero copiare il funzionamento del sole e delle altre stelle dell’universo, tralasciando allo stesso tempo l’opportunità di ricavare energia direttamente, come logica vorrebbe, dai raggi solari.

CONTRARIAMENTE all’energia nucleare da fissione, dove si provoca la scissione degli atomi dei metalli più pesanti esistenti in natura (uranio soprattutto) per produrre calore ed energia, la tecnologia propugnata dalla Meloni si basa su un principio teorico opposto. L’energia infatti si otterrebbe dalla fusione di atomi leggeri, specificamente dagli isotopi dell’idrogeno, che in tal modo potrebbero liberare una grande quantità di calore. Per ottenere questo risultato occorrono temperature elevatissime da realizzare in ambiente confinato e durevole nel tempo.

ENTRANDO NEI dettagli dell’annuncio proclamato durante il recente vertice sul clima di Dubai, gli effetti di questa scelta “meloniana” sono ben chiari. Il primo effetto è rappresentato dalla strategia secondo la quale, aspettando la futura tecnologia atomica «rinnovabile», si continuerà a ricorrere alle fonti fossili. Saranno così garantiti gli attuali e potentissimi interessi economici che ruotano intorno al loro utilizzo, a prescindere dagli impegni assunti in sede internazionale per la loro eliminazione progressiva: accadeva nel dicembre 2015 a Parigi.

Presentando la fusione nucleare come energia rinnovabile del futuro si produce anche un secondo effetto molto di moda: quello dell’uso delle «armi di distrazione di massa». Quasi nessuno in Italia ricorda che tutti i governi fin qui succedutisi non hanno ancora individuato, ad esempio, il sito dove realizzare il deposito unico nazionale delle scorie radioattive prodotte dalle centrali nucleari chiuse dopo il referendum del 1987 ma non ancora completamente dismesse. Ancor meno conosciuto è il fatto che, da un lato lo stoccaggio all’estero delle scorie più pericolose (a La Hague in Francia e a Sellafield nel Regno Unito) ci sta costando una fortuna, mentre dall’altro non si è ancora in grado di quantificare il costo definitivo dello smantellamento di tali impianti, il cosiddetto decommissioning. Al ritmo attuale è sempre più probabile che questi costi produrranno una spesa complessiva per il nostro Paese che sarà molto più alta dei vantaggi energetici prodotti.

COME TERZO EFFETTO, strettamente collegato ai primi due, c’è il nuovo mascheramento del rapporto tra l’uso militare e l’uso civile dell’energia atomica. Un rapporto in base al quale non è giustificabile il primo uso senza il paravento del secondo. È lo stesso rapporto che tutt’oggi regola i poteri di veto delle cinque nazioni che detengono gli arsenali di armi nucleari all’interno del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Regno Unito). L’ultimo esempio in ordine di tempo si è avuto nei giorni scorsi con gli USA che hanno imposto il loro veto alla risoluzione su Gaza per un immediato cessate il fuoco umanitario. Quelle da fissione e da fusione infatti sono due tecnologie inizialmente create esclusivamente per scopi militari, salvo poi dargli una veste sociale con il programma «Atomi per la Pace» del 1955: con la fissione nucleare è stata creata la prima bomba atomica usata in guerra nella storia dell’uomo e fatta esplodere a Hiroscima il 6 agosto 1945, mentre con la fusione nucleare è stata messa a punto la famigerata bomba H, detta per l’appunto bomba all’idrogeno.

ANDIAMO DUNQUE a fare i conti di quanto ci costerebbe la «svolta ambiental-nuclearista» della Meloni. Nel 1986 (quello dell’incidente di Chernobyl per intenderci) in Italia si è avuto il picco di produzione di energia elettrica da fonte nucleare con il 4,5% del totale. Come termine di confronto prendiamo l’ultimo e unico reattore commissionato in Europa negli ultimi venti anni (il terzo della centrale di Olkiluoto, in Finlandia), entrato in funzione con 12 anni di ritardo (spento dopo pochi mesi per problemi tecnici) e con costi quadruplicati rispetto alle previsioni. Questo significa che per arrivare alla stessa insignificante quantità di energia elettrica di quaranta anni fa occorre mettere da parte non meno di 35-40 miliardi di euro. A questa cifra dovremmo aggiungere i costi per mandare avanti il restante 95,5% delle attività economiche.

CON LA STESSA CIFRA invece si potrebbero costruire non meno di 3.000 piccoli impianti per la produzione di biometano a partire da scarti agricoli, deiezioni animali, sostanza organica da raccolta differenziata dei rifiuti, fanghi organici degli impianti di depurazione, residui di lavorazione delle agro-industrie e altre matrici organiche a costo basso o neutro. Questi impianti potrebbero essere diffusi su tutto il territorio nazionale, senza la costruzione di nuove infrastrutture di distribuzione. Sarebbero inoltre in grado di riassorbire l’anidride carbonica in eccesso dall’atmosfera. In tal modo si risparmierebbe per sempre almeno il 25% della nostra bolletta energetica attuale totale, evitando così di rincorrere i prezzi dei combustibili non rinnovabili altalenanti tra una guerra e l’altra.

INFINE IL CONTO che più ci sta a cuore. A regime, con la futura e ancora di là da venire energia da fusione nucleare, al massimo si creerebbero un migliaio circa di nuovi occupati, mentre con gli impianti di biometano i posti di lavoro sarebbero 15 volte superiori. La svolta nuclearista della Meloni è dunque solo l’ennesimo favore ai grandi potentati industriali dell’energia e ai paraventi militari che desiderano tradurre il nucleare civile in nucleare militare per aumentare il potenziale militare distruttivo del Paese.