Dalla Biennale a Fotografia europea, tra cancellazioni e porte aperte
L'arte e la guerra Padiglioni chiusi, inviti annullati e molti imbarazzi. In Laguna e a Cannes, la posizione migliore: no a delegazioni ufficiali, sì ad autori e a chi difende la libertà di espressione. La cultura non è un campo di battaglia da boicottare
L'arte e la guerra Padiglioni chiusi, inviti annullati e molti imbarazzi. In Laguna e a Cannes, la posizione migliore: no a delegazioni ufficiali, sì ad autori e a chi difende la libertà di espressione. La cultura non è un campo di battaglia da boicottare
La guerra scuote la cultura e la trascina fra i bombardamenti, chiedendo di schierarsi. Ma: può la cultura indossare la mimetica e divenire luogo privilegiato di boicottaggi, al pari di quelli decretati in campo economico? È quel che sta accadendo in diversi campi della produzione di idee, però qui il terreno si fa assai insidioso, con stupefacenti abbagli e surreali censure. Perché se è vero che in un momento come questo non si può collaborare con alcune istituzioni governative russe, dall’altra resta verissimo il fatto che un artista nato a Mosca o una illustratrice di san Pietroburgo (la Children’s Book Fair di Bologna, che si terrà dal 21 al 24 marzo, ha annullato la presenza russa) non sono identificabili con un sistema politico. Non è certo una torre d’avorio la cultura, ma neanche un campo di battaglia, con arte film libri spettacoli da arruolare secondo necessità, brandendoli ciecamente come spade, non senza ipocrisie. E non è nemmeno un soggetto astratto, separato da chi la agisce. In questo goffo tentativo di «cancel culture» e sanzioni incrociate – con un effetto domino che allarga il raggio d’azione col passare dei giorni – l’arte assume su di sé molti degli imbarazzi presenti.
A FARE NOTIZIA è, poco dopo l’aggressione militare di Putin all’Ucraina, la chiusura del padiglione russo della 59/a Mostra della Biennale di Venezia. Stavolta non è per una decisione istituzionale italiana, ma per un forte gesto politico del suo curatore Raimundas Malašauskas, dimessosi con gli artisti Alexandra Sukhareva e Kirill Savchenkov. «Non c’è posto per l’arte quando i civili muoiono sotto le bombe, quando i dissenzienti russi sono ridotti al silenzio», dice Savchenkov)mentre per Malašauskas non è possibile «andare avanti a lavorare. Questa guerra è politicamente e umanamente intollerabile».
La Biennale, da parte sua, ha appoggiato la decisione e intanto offerto aiuto affinché l’artista ucraino Pavlo Mako con il suo team possa continuare il suo progetto, senza pericoli per la propria vita. Inoltre, come Ente e «rete» di varie discipline, ha fatto sapere che adotterà una linea simile al festival di Cannes: non sosterrà boicottaggi – dall’arte al cinema all’architettura al teatro e la danza – né chiuderà le porte «a chi difenderà la libertà di espressione e manifesterà contro l’ignobile e inaccettabile decisione dell’attacco di uno stato sovrano e della sua indifesa popolazione». Niente delegazioni ufficiali, sì invece a tutti gli indipendenti.
GRANDE MAL DI PANCIA anche per il Festival di fotografia europea che nella sua edizione che va sotto il titolo Un’invincibile estate assegnava alla Russia un posto d’onore con la mostra Sentieri di ghiaccio, per la cura di Dimitri Ozerkov, direttore del Dipartimento contemporaneo dell’Ermitage (ecco qui il problema delle collaborazioni con lo stato). Tutto annullato dalla Fondazione Palazzo Magnani e il Comune di Reggio Emilia. «C’è un tempo per affermare con fermezza il diritto dei popoli a vivere in pace e un tempo per aprirsi al dialogo e al confronto, senza che violenza e morte siano invitate al tavolo», dichiarano. Eppure uno dei fotografi che non esporrà – Alexander Gronsky – aveva apertamente criticato la guerra di Putin, era stato arrestato e poi rilasciato.
Pure la Triennale «destituisce» il padiglione russo: non ci sarà nessun invito per la partecipazione all’edizione estiva, ha comunicato il presidente Stefano Boeri.
INTANTO, L’ARTE cade sotto le bombe. Il museo di Storia locale di Ivankiv, nella regione di Kiev, è stato distrutto nella notte tra il 27 e il 28 febbraio. A farne le spese, Maria Prymachenko, pittrice naïf e primitivista, amatissima in patria, di cui sono andate in fumo almeno venti opere, bestiari mitologici che si ispiravano al folklore del suo popolo e scaturivano dai suoi incontri selvatici nelle foreste o da scene di vita rurale. Nata nel 1908 nel villaggio di Bolotyna imparò l’arte del ricamo da sua madre e sua nonna: fu scoperta grazie proprio ai ricami in vendita nel mercato della cittadina e invitata a unirsi al Laboratorio sperimentale centrale del Museo dell’arte ucraina di Kiev. Espose anche a Parigi, ammirata, per i suoi dipinti fiabeschi, da Picasso e Chagall.
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