Giorgia Meloni esce dalla mostra su Tolkien col piglio indomito della Dama Galadriel. Le chiedono lumi sulla sorte del Mes e lei si lancia, drastica e ardita: «Non mi pare che stia slittando. Se la settimana prossima è calendarizzato, la settimana prossima si discuterà». Dunque al termine della discussione si dovrebbe anche votare. La premier non si sbilancia, in fondo a decidere dovrebbe essere la Camera, avendo il Senato già approvato la ratifica, mica il governo. Però un segnale inequivocabile la battagliera Giorgia non lo nega: «Per me non è cambiato niente». Dovrebbe significare che la settimana prossima, il 22 novembre, l’Italia affosserà la riforma del Mes entrando in frontale conflitto con l’intera Ue. Altro che Aragorn.

Possibile che la presidente, sin qui distintasi per un rimpiattino da far sembrare Giuseppe Conte un decisionista, sia stata folgorata dai quadri della pregevole esposizione riscoprendosi guerriera? Evidentemente no. Infatti il trucco c’è e si vede, annidato in una frasetta buttata lì quasi per caso, «se la discussione è calendarizzata». Per esserlo lo sarebbe. Però ci sono due decreti da convertire, l’Immigrazione e il Milleproroghe, entrambi con la fiducia, massima urgenza. C’è anche la relazione del ministro degli Esteri sull’accordo con l’Albania del quale è stato evidentemente messo al corrente da chi ha sbrigato la faccenda, una premier che si comporta come se avesse l’interim degli esteri. Con tutta questa montagna di impegni come si fa a discutere di una bazzecola come la riforma del Mes? Slitterà non per colpa del governo, honni soit qui mal y pense, ma perché i regolamenti sono quelli che sono e prevedono che la materia slittata finisca in fondo all’agenda, con la sessione di bilancio di mezzo. Ci vorranno settimane? Macché: mesi.

La maggioranza ieri aveva un problemino da risolvere più impellente: che fare con gli emendamenti alla legge di bilancio? La parola d’onore è stata solenne: non ci saranno emendamenti di maggioranza. Equivale a rendere il parlamento un orpello proprio quando dovrebbe esercitare in pieno il proprio ruolo, trattandosi per definizione della legge più importante dell’anno, ma sono particolari. La parola è la parola e chi non la mantiene viene da Mordor. Solo che Forza Italia e la Lega gli emendamenti li vogliono. Insistono, gli spergiuri. Una soluzione c’è e il vertice di maggioranza riunito ieri mattina la adotta lesto. Gli emendamenti ci saranno, però non presentati e votati in aula, non sia mai. L’aula discuterà esercitando in anticipo il ruolo che la riforma costituzionale in cantiere le riserva: consultivo. Poi una cabina di regia permanente composta da una delegazione di governo e una di maggioranza deciderà quali consigli seguire, trasformandoli in emendamenti dei relatori oppure, più probabilmente, nel classico maxiemendamento finale che se dovesse mancare sarebbe come il natale senza panettone. È rimpiattino anche questo ma la posta in gioco è tanto esigua che il fatto neppure riesce a destare scandalo: in tutto ci sarà da ripartire un centinaio scarso di milioni. Assalto non alla diligenza ma al carretto.

Una voce che sembra non permettere più rinvii per la verità c’è: l’eterna croce delle concessioni balneari. Oggi potrebbe arrivare la lettera di Bruxelles che dà al governo due mesi per rispondere alle contestazioni, passati i quali scatterà la procedura d’infrazione. C’è da scommettere che quei due mesi il governo se li prenderà tutti: mai decidere oggi quel che può essere rinviato a domani. Magari il mago Gandalf avrebbe qualcosa da obiettare ma la grintosa destra italiana questo è.