Destra, un’egemonia in nome degli hobbit
Tempi presenti Da giovedì alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma la mostra «Tolkien. Uomo, Professore, Autore». Sarà Giorgia Meloni a inaugurare l’evento simbolo della strategia dell’esecutivo. «La conquista» dell’autore de «Il Signore degli Anelli» da parte di un’area che rinuncia alla nostalgia pur restando irriducibile al presente, si è compiuta intorno ai concetti di identità e comunità
Tempi presenti Da giovedì alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma la mostra «Tolkien. Uomo, Professore, Autore». Sarà Giorgia Meloni a inaugurare l’evento simbolo della strategia dell’esecutivo. «La conquista» dell’autore de «Il Signore degli Anelli» da parte di un’area che rinuncia alla nostalgia pur restando irriducibile al presente, si è compiuta intorno ai concetti di identità e comunità
I segnali c’erano già tutti, solo a volerli riconoscere e a prenderli sul serio. Perché dalle elezioni del 25 settembre dello scorso anno, che hanno condotto Giorgia Meloni e i postfascisti di Fratelli d’Italia alla guida del governo della Repubblica, l’espressione «egemonia culturale» è forse una di quelle che più hanno fatto capolino negli interventi degli esponenti della maggioranza. Fin qui, però, evocare più o meno maldestramente le parole di Gramsci si era tradotto in un’occupazione pressoché totale di posti e spazi, dalle direzioni dei grandi musei alle fasce di prima serata dei palinsesti Rai. Controllo o monopolio più che egemonia, veniva perciò da pensare. In particolare perché le coordinate della «cultura di destra» che questo progetto intende sostenere, d’ufficio e in virtù dei «numeri» dei partiti dell’esecutivo, non sono mai state delineate in modo chiaro. Perlomeno fino ad ora. Perché la grande mostra «Tolkien. Uomo, Professore, Autore» che si apre giovedì 16 alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, e che sarà inaugurata dalla stessa Presidente del Consiglio, offre una prima risposta a tale interrogativo.
SI TRATTA INFATTI con tutta evidenza dell’iniziativa più importante e significativa che il governo delle destre ha intrapreso fino ad ora sul terreno della cultura. Presentando l’evento, che celebra l’autore de Il Signore degli Anelli a cinquant’anni dalla sua morte, il ministro Sangiuliano ha sottolineato che la scelta dell’esposizione «non è stata casuale ma deliberata e voluta», prima di presentare il creatore degli Hobbit come «un autentico e sincero conservatore» che ha difeso i valori tradizionali «dimenticati» in Occidente. Perciò, in qualche modo un antesignano di ciò che la destra italiana pretende di incarnare oggi, sia sul piano politico che culturale.
Proprio Meloni ha del resto rimarcato più volte quella sorta di debito giovanile che il mondo postfascista sembra avere nei confronti di Tolkien, moltiplicando nei suoi interventi pubblici citazioni e frasi ad effetto e arrivando a rievocare – nelle pagine di Io sono Giorgia. le mie radici, le mie idee (Rizzoli, 2021) – come nei locali della sezione missina di Colle Oppio a Roma, dove è cresciuta politicamente, ci si riunisse per il «richiamo del corno», dal corno di Boromir che nella saga tolkieniana chiamava a raccolta la Compagnia, per discutere settimanalmente, mentre i giovani militanti arrivavano ad animare dei tableaux vivant impersonando hobbit e elfi nel parco antistante la sede.
Nel frattempo, da quando Tolkien è diventato uno degli autori più citati a Palazzo Chigi, l’attenzione, rivolta anche dai media internazionali al fenomeno, ha però messo in evidenza tutti i limiti di questa «appropriazione» da parte della destra. Perché se la matrice sacra, ispirata alla fede cattolica dello scrittore, è evidente nella sua opera, sembra che sul finire dei suoi giorni Tolkien abbia visto con dispiacere i propri personaggi «arruolati» dalla nuova destra, dopo aver stigmatizzato, nel 1938 – in un paio di lettere raccolte dal suo biografo Humphrey Carpenter (J. R. R. Tolkien. La biografia, Lindau, 2016) – la pubblicazione di Lo Hobbit, da parte di un editore tedesco che nel 1938 gli chiedeva conto della sua ascendenza ariana.
Se è noto come all’origine de Il Signore degli Anelli ci siano il sentimento di orrore per la guerra che lo scrittore all’epoca 24enne maturò nelle trincee della Somme nel 1916, al pari del timore che i costi umani e ambientali del capitalismo industriale suscitavano in lui, dopo l’annuncio della mostra a Valle Giulia, la stampa, in particolare britannica, si è interrogata sul senso politico dell’iniziativa. Se per il Times con questa mostra «la destra vuole esplicitamente controllare la cultura», il Guardian riflette sul fatto che Tolkien venga utilizzato «per scopi populistici e nazionalistici» e che proprio questa iniziativa evidenzi come sotto l’aspetto «moderato» di Meloni, «sotto la superficie», si nasconda «un’agenda culturale profondamente preoccupante».
PERCHÉ LA DOMANDA che accompagna l’evento romano contiene in sé già una parte della risposta. Perché proprio Tolkien? E cosa rappresenta per la destra italiana cresciuta nel solco del neofascismo e prima ancora delle vicende degli sconfitti del 1945?
In questo ambiente si è soliti considerare come una sorta di proprio «luogo della memoria» il primo Campo Hobbit, che si svolse nel giugno del 1977 in provincia di Benevento per iniziativa dei giovani missini. In quella fase, come notava Marco Revelli già a metà degli anni Ottanta – in La destra radicale, un volume fondamentale curato dal compianto Franco Ferraresi (Feltrinelli, 1984), «nel fantastico mondo tolkieniano, intreccio di saga nordica e di narrativa eroica medievale, la “nuova destra” ha trasferito in buona parte il proprio immaginario identificante, e da esso ha tratto molti dei propri simboli». Non si trattava soltanto di immaginare «la realizzazione in chiave fantastica della propria “concezione del mondo”, ma anche dell’occasione per ricostruire un nuovo “senso della comunità” non più sui vecchi stereotipi mitizzati, ma su un’inedita trama simbolica di più rapida ed efficace circolazione».
In altre parole, ci si impegnava per abbandonare la propria auto-rappresentazione come «esuli in patria», ripiegati esclusivamente sul passato, per giocare in campo aperto ma attraverso un cornice che mantenesse in qualche modo inalterata l’irriducibilità di fondo al presente. Non a caso, è sulla traccia di quanto un pugno di giovani neofascisti francesi andava tentando già all’indomani del Sessantotto parigino, la futura Nouvelle Droite, che si compie nel nostro Paese «la conquista» di Tolkien da parte della destra giovanile. Due le parole chiave che, in sintesi, definivano quel passaggio per molti versi storico che sta ora riemergendo intorno all’idea di una nuova egemonia culturale da contrapporre alle idee della sinistra: identità e comunità.
Ricorrendo ancora alle analisi di Revelli – in questo caso espresse ne Le due destre (Bollati Boringhieri, 1996) -, in quella fase germinale, la «nuova destra» che in Italia attraversava anche le sezioni missine, ed in particolare il mondo giovanile del partito e gli ambienti «rautiani», «all’assolutizzazione della logica di mercato come unico modello di rapporto sociale – all’utilitarismo come unica religione della modernità -. opponeva le sfere terribili del sacro e delle forze primordiali, alla societé marchande i miti del sacerdote del guerriero, i regni irriducibili della qualità sottratta allo scambio. Allo sradicamento, infine, alla modalità diffusa di una società ormai priva di appartenenze, opponeva la riscoperta delle radici, la presa di coscienza della propria specifica identità».
In tale prospettiva, l’opera di Tolkien, riletta nei termini di un conflitto costante tra il bene e il male, tra la tradizione e la modernità, diviene il simulacro di una realtà imperitura, un’epopea che attraverso il mito declina un lessico immortale e immutabile. Qualcosa che assomiglia molto alla definizione che ha offerto già da tempo e con illuminante chiarezza Marcello Veneziani nel suo La cultura della destra (Laterza, 2002) spiegando come «la cultura della destra coincide con quella che un tempo si definiva Weltanschaung, visione del mondo e della vita; è il linguaggio delle idee senza parole per dirla con Oswald Spengler». Miti, riti, mentalità, religioni e costumi «che hanno permeato secoli e popoli»: «l’archetipo della cultura per la destra – suggerisce perciò Veneziani – coincide con l’idea di tradizione».
IN QUESTO SENSO, proporre proprio J. R. R. Tolkien come emblema della lunga marcia verso l’egemonia culturale che la destra si appresta a percorrere, non significa, come si potrebbe essere portati a pensare, che si stia scartando dal repertorio della nostalgia in odore di Ventennio e Minculpop, quanto piuttosto ad attingere ad una fonte ben più profonda e che in qualche modo previene lo stesso Novecento totalitario. Del resto, una delle citazioni tolkieniane più amate in questi ambienti non è forse «le radici profonde non gelano mai»?
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