«Ho fatto due anni di prigione per aver guidato una barca. Ho salvato la vita di quelle persone, non avevamo altra scelta. Ora vogliamo lottare per la libertà e i diritti umani di altri migranti imprigionati ingiustamente». Cheikh Sene è un attivista del circolo Arci «Porco Rosso», che si trova nel cuore di Ballarò, il quartiere più multietnico di Palermo. Nonostante i due anni di prigionia, quello di Cheikh può ritenersi persino un percorso fortunato. Perché almeno può raccontare la propria esperienza. C’è chi invece, oltre all’ingiustizia vera e propria della detenzione, subisce silenzi e ostracismi che continuano nel tempo. Sono gli scafisti, categoria ormai diventata concettuale, quasi mitologica, nella narrazione mainstream che viene fatta sulle migrazioni.

ADDITATI COME GLI UNICI responsabili degli sbarchi, ora un rapporto coraggioso ne denuncia la criminalizzazione, a cui aggiunge ogni volta l’aggettivo «cosiddetti». Si tratta della ricerca «Dal mare al carcere», realizzata dal Porco Rosso e da Alarm Phone attraverso un incrocio di dati derivanti dai report annuali delle forze dell’ordine, dalle testimonianze dirette raccolte dagli attivisti delle due associazioni e dalla consultazione degli articoli di stampa. Si scopre che dal 2013 oltre 2500 persone sono state arrestate con l’accusa di essere appunto i famigerati scafisti. I capi di imputazione sono vari: si va dal favoreggiamento dell’immigrazione clandestina all’omicidio plurimo (nel caso in cui l’imbarcazione affonda o si ribalta) all’associazione per delinquere, con la magistratura antimafia che li indica come esponenti di organizzazioni più radicate.

MARIA GIULIA FAVA, operatrice legale che ha collaborato alla stesura del report, denuncia che «si tratta di processi politicamente condizionati. Nella caccia allo scafista, capro espiatorio a cui addossare ogni responsabilità, le garanzie processuali vengono meno e quei principi su cui dovrebbe fondarsi ogni procedimento penale vengono con leggerezza violati». Ma chi sono queste scellerate figure? Il report indica uno «spettro di capitani», vale a dire persone che hanno condotto le imbarcazioni per vari motivi: o per migrare anche loro, o perché sotto minaccia di violenza, o dietro pagamento di un compenso.

In ogni caso Alarm Phone e Porco Rosso, anche di fronte ai casi odiosi (che pure esistono) di sfruttamento e lucro, indicano che è necessario condannare «la criminalizzazione della migrazione in sé e per sé, sulla quale si fonda il sistema che produce tutte queste situazioni». Concentrare le attenzioni sugli scafisti, e per giunta esclusivamente quelle penali, assolve le responsabilità politiche sui motivi che causano i fenomeni migratori. E crea migliaia e migliaia di reietti, perché i problemi di chi viene condannato, o anche soltanto accusato, per aver guidato una barca non si esauriscono con il carcere.

«Viene fuori che una persona che è stata condannata come scafista ha grandissime difficoltà nella richiesta della protezione internazionale», si legge ancora. Najla Hassen, mediatrice interculturale di Medu Sicilia, racconta il caso di «un detenuto che aspettava la fine della condanna per prendere un caffè al bar di fronte al carcere». Durante la prigionia l’uomo aveva conseguito la licenza media, era stato quel che si dice un detenuto modello. Fuori dal carcere, però «ad attenderlo non c’era una seconda possibilità, ma una volante che lo accompagna a un centro per il rimpatrio».

ALLA COLPEVOLE semplificazione delle istituzioni, la ricerca condotta dalle associazioni risponde con una lunga serie di richieste: dalla riduzione dell’ambito di applicazione dell’art.12 del Testo Unico Immigrazione (il reato additato agli scafisti di «favoreggiamento dell’immigrazione clandestina») alla tutela dei diritti di indagati, imputati e testimoni. Il punto centrale resta l’abolizione delle frontiere. Per Sara Traylor, attivista di Alarm Phone, «mandare le persone in prigione non fermerà la migrazione né la renderà più sicura».