«Dahomey», gli itinerari del colonialismo e l’anima degli oggetti
Berlinale 74 Nel film di Mati Diop, in concorso, la restituzione del tesoro del Benin da parte della Francia
Berlinale 74 Nel film di Mati Diop, in concorso, la restituzione del tesoro del Benin da parte della Francia
Dahomey era il nome dell’antico Regno oggi Repubblica del Benin che la Francia ha invaso e colonizzato nel 1892. Il generale Dodd, che era alla guida delle truppe entrate a Abomey, la capitale i cui Palazzi reali sono divenuti patrimonio dell’Unesco, ne aveva saccheggiato le preziose opere d’arte portandole in Francia dove sono state rinchiuse al Musée dell’Homme e poi al Quai Branly. La cronologia attraversa secoli prima che ventisei di queste opere nel novembre del 2021 sono state restituite al Benin, come richiesto dal suo presidente Patrice Talon già nel 2016; un tempo lunghissimo che nel suo insieme di date scrive la storia del colonialismo, delle guerre di liberazione, del pensiero post-coloniale, in cui queste restituzioni dovrebbero rappresentare, almeno simbolicamente, un passaggio centrale nel processo di appropriazione da parte dei paesi colonizzati di una storia alla prima persona. E un mezzo con cui mutare anche il racconto dei paesi colonizzatori – pensiamo in Italia alla Stele di Axum e agli scontri sulla sua restituzione che finalmente sanciva il riconoscimento di un colonialismo sempre mascherato – con una maggiore coscienza rispetto a quel continente, ai nostri rapporti con esso e ai suoi migranti di adesso.
SONO DUNQUE molte le piste che Mati Diop mette in campo nel suo bel film, presentato in concorso, Dahomey, che sin dal titolo dichiara la cifra su cui lavora la regista in cui la dimensione politica si unisce a quella fantastica per inventare una forma, uno sguardo postcoloniale che sfuggono alle definizioni. Atlantique, il suo film precedente, parlava dei ragazzi migranti in Senegal che attraversano il mare, lì muoiono e tornano indietro a chiedere conto in forma di revenant, di fantasmi. Perché se da una parte c’è l’occidente con i suoi saccheggi mai terminati, la responsabilità politica delle classi dirigenti africane non è da meno, e alla dimensione della «vittima» – ricorrente per parlare dei migranti nello sguardo occidentale, Mati Diop nella magnifica lezione famigliare (suo zio era il grandissimo regista Djbril Diop Mambety) oppone appunto quello di una prima persona critica, che utilizza ogni strumento, per prima la lingua – si parla wolof.
Lo stesso accade in Dahomey: qui i ritornanti sono le opere d’arte alle quali Diop dà una voce arcaica, grazie al testo del poeta haitiano Makenzy Orcel, che parla in Fon, la lingua del Dahomey, e pone domande in cui risuonano gli interrogativi sul loro destino, sulle relazioni con la storia e su quelle con il presente e col futuro. E in un certo modo anche sul significato di fare «cinema politico» che nelle scelte della Berlinale sembra essere una caratteristica quasi obbligata, troppo spesso però con film che si fermano al loro soggetto senza porsi questioni sulle modalità della sua rappresentazione.
Il trasferimento delle statue, la dimensione mitica, gli studenti e le questioni aperte tra cui la lingua
Le statue parlano dunque – e non si può che pensare a Chris Marker e Alain Resnais e al loro Les statues meurent aussi sul pensiero colonizzatore rispetto all’arte non occidentale. Si chiedono dove andranno, se la loro presenza avrà ancora un senso, cosa troveranno lì dopo tanto tempo nel buio di un paese non loro. E perché i numeri, ventisei, e non un nome, lui è il Re Ghozo. Ne ascoltiamo la descrizione minuziosa fatta dai responsabili che seguono l’operazione di trasferimento, i materiali di cui sono fatte – legno, ferro – i segni del tempo rimasti, chi rappresentano, le loro storie. Il vento nelle sale del palazzo presidenziale porta con sé l’odore del passato. E poi? Cosa accadrà dopo questo ritorno celebrato con grande enfasi per giorni dalle istituzioni? La notte avvolge di mistero il Palazzo, quasi che la presenza delle statue sia un rituale magico e politico, con la voce che dona loro un’anima rompendo i limiti della realtà in una dimensione che nella storia lascia entrare il mito.
Il controcampo a questo aspetto fantasy sono le studentesse e gli studenti dell’Università di Abomey-Caluni filmati in un dibattito pubblico sulla restituzione.
«LA MIA SFIDA è stata qui creare uno spazio libero di espressione che appartenesse ai protagonisti» dice nelle note di regia Mati Diop. E questo diviene la loro parola che afferma un’esistenza, la lingua che, come quella delle statue, nel farsi coscienza critica interroga il proprio tempo e la storia che lo ha formato.
In fondo sono le stesse domande che mito e attualità si fanno, perché riguardano un’esperienza comune, una realtà in cui si parla ancora il francese dei colonizzatori e non si celebrano le Amazzoni, le donne guerriere che difesero il Regno dalle quali una ragazza si dice «fiera» di discendere visto che le hanno detto che discende dagli schiavi – nel Regno di Dahomey erano coloro catturati in altre guerre e forza lavoro che garantiva ricchezza, lo dimostrano le decorazioni di un trono. Un altro invece definisce il ritorno dei ventisei pezzi «un insulto», un altro ancora ne sottolinea la motivazione esclusivamente politica, un gesto simbolico fatto dai francesi per distrarre dalle pressioni interne. Come è allora questa narrazione di sé, quali ostacoli trova in un processo che è sempre in costruzione? In che modo rappresentarsi, a cosa rivolgersi? Le giovani generazioni africane devono trovare qualcosa su cui fondare la ricostruzione e con lucidità illuminano le contraddizioni di fronte alle quali anche questo evento importante li pone. Così fa Diop, che come loro cerca di costruire film dopo film un’Africa fatta di singolarità, che oppone il proprio racconto a quello dell’occidente, insieme a una costante critica a chi la governa, perpetrando il colonialismo. Lo fa soprattutto con un cinema libero, che inventa un immaginario da cui ripartire.
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