A due anni dall’invasione russa dell’Ucraina la guerra continua a espandersi, come dimostra il massacro quotidiano compiuto dal governo israeliano a Gaza e la militarizzazione delle società che stringe sempre più la sua morsa, ostacolando i movimenti che si battono contro l’oppressione e lo sfruttamento.

È questo il dato di partenza che ha radunato sabato 24 febbraio oltre cento persone – parte delle quali presenti agli streaming pubblici organizzati a Francoforte e Salonicco – provenienti da diverse parti del mondo e chiamate a raccolta in occasione di un evento online dell’Assemblea permanente contro la guerra (Paaw), iniziativa lanciata dalla Piattaforma per lo sciopero sociale transnazionale (Tss) all’indomani dello scoppio della guerra in Ucraina.

IN OLTRE DUE ORE sono intervenuti attiviste e attivisti di provenienze diverse (Palestina, Israele, Ucraina, Iran, Italia, Spagna, Rojava, Germania, Grecia, Regno Unito, Slovenia ecc.), ed è stato realizzato un collegamento in diretta dal corteo per la Palestina in corso a Milano.

Dalla Palestina e da Israele, Nisreen Morqus (Democratic Women) e Nave Shabtay Levin (Mesarvot) hanno raccontato l’impatto brutale della guerra su Gaza e sulla Cisgiordania – dove «dal 7 ottobre sono aumentate l’espansione degli insediamenti abusivi e l’intensità della colonizzazione» –, oltre che la repressione del governo israeliano nei confronti di chi rifiuta l’arruolamento obbligatorio o denuncia pubblicamente le sue atrocità.

«Come risultato della guerra, ai trentamila morti di Gaza si sommano più di duecentocinquantamila rifugiati interni in Israele, ai quali il governo non fornisce alcuna assistenza, e migliaia di persone che hanno perso il lavoro. Chi guadagna dalla guerra è solo chi non ne paga le conseguenze». In Israele si è costituito un “fronte di pace” composto da quaranta organizzazioni israeliane e palestinesi che promuove settimanalmente manifestazioni per chiedere il cessate il fuoco, il rilascio degli ostaggi e la fine dell’occupazione, e che vengono regolarmente represse per via poliziesca o giudiziaria.

La guerra fa sentire i suoi effetti anche là dove non cadono le bombe. La Repubblica iraniana alimenta il conflitto mediorientale sostenendo Hamas per reprimere al suo interno gli scioperi contro il lavoro povero e l’aumento dell’inflazione, le mobilitazioni contro l’inquinamento produttivo in corso da settimane ad Arak, e le donne che continuano a lottare contro il sistema patriarcale iraniano.

In modo analogo, la Turchia nasconde dietro la guerra regionale i suoi continui attacchi contro la Rojava. In Germania, il governo utilizza in modo strumentale l’accusa di antisemitismo per silenziare le voci che si alzano contro il massacro israeliano a Gaza, ma non si preoccupa dell’aumento di una vera violenza antisemita e islamofoba, «un problema presente da prima del 7 ottobre», e anzi sta facendo della guerra l’occasione per mettere in atto politiche sempre più razziste, ha ribadito un militante di Interventionistiche Linke.

DENTRO E FUORI l’Europa, la guerra rafforza confini e gerarchie migratorie. Tra i costi della guerra, ha detto un’attivista del Transnational Migrants Coordination, ci sono «l’aumento del razzismo e il restringimento del diritto d’asilo», come dimostrato dal protagonismo di molti migranti di prima e seconda generazione che animano le piazze europee, o donne e uomini afroamericani e latini che negli Stati Uniti si mobilitano contro il massacro compiuto dallo Stato di Israele. «Il rifiuto di ciò che sta avvenendo a Gaza procede di pari passo con il rifiuto del razzismo e della subordinazione che i migranti sperimentano anche fuori da Gaza».

Vadym Yakovlev, fuggito dall’Ucraina per evitare il reclutamento coatto, ha denunciato il sistema di arruolamento obbligatorio che il governo ha istituito per impedire la crescente renitenza alla leva: «I centri per la coscrizione ti prendono per strada e ti mandano al fronte come carne da macello» e «nessuna protesta è autorizzata a meno che non sia a favore della guerra e del governo».

La messa in comunicazione di chi vive la guerra e i suoi effetti da posizioni diverse è necessaria per scompaginare il frontismo che la guerra impone anche ai movimenti, confinando le lotte e riducendo la loro capacità di espandersi: c’è un’opposizione alla violenza cieca di Netanyahu anche in Israele, c’è un’opposizione alla guerra anche in Russia. Anche sul fronte di chi si oppone all’Occidente o resiste al colonialismo vi sono rapporti di oppressione e dominio.

Attraversare e rovesciare i fronti stabilendo connessioni contro la guerra e ogni progetto politico nazionalista e autoritario è necessario per rafforzare la presa di posizione dalla parte di chi, in Palestina come in Ucraina, sta subendo gli effetti più brutali della guerra. Questo è il significato della «politica transnazionale di pace» promossa dalla Paaw, una politica che vuole «trasformare la pace in un campo di lotta politica – che è l’opposto della guerra – contro l’oppressione».

LE MOLTISSIME manifestazioni contro il massacro di Gaza sono un’occasione per praticarla. Lo saranno anche le manifestazioni e lo sciopero femminista del prossimo 8 marzo. Carlotta Cossutta di Non Una di Meno, dalla piazza di Milano, ha ricordato che dalla lotta di donne e queer contro la violenza maschile sta emergendo «un punto di vista femminista, oggi più che mai necessario, contro la guerra che rafforza il patriarcato, il nazionalismo e l’autoritarismo».

Le attiviste e gli attivisti della Paaw saranno parte di questo processo, per sostenere e amplificare la presa di parola femminista contro la guerra, per organizzare connessioni attraverso i fronti a partire dalle condizioni di lavoratrici e lavoratori, migranti, donne e queer che lottano per non pagare il prezzo della guerra. L’opposizione alla guerra è reale solo se coinvolge tutti coloro che da posizioni differenti lottano contro l’oppressione, lo sfruttamento, il razzismo e il patriarcato. Non c’è pace senza le nostre lotte.