Da preCop il mantra delle buone intenzioni
Emergenza climatica Le notizie del «day after» son più o meno le stesse che si leggono ogni volta, come in un rito stanco, che oppone all'urgenza di misure radicali, proclami che a forza di pronunciarli hanno perso credibilità
Emergenza climatica Le notizie del «day after» son più o meno le stesse che si leggono ogni volta, come in un rito stanco, che oppone all'urgenza di misure radicali, proclami che a forza di pronunciarli hanno perso credibilità
Se si riavvolgesse il nastro delle dichiarazioni che – Cop dopo Cop, negoziazione dopo negoziazione, conferenza ministeriale dopo conferenza ministeriale – vengono sciorinate sul futuro della lotta ai cambiamenti climatici da Ministri, leader politici e rappresentanti delle Nazioni Unite, si potrebbe mixare senza fatica un «Mantra delle buone intenzioni» destinato a diventare una hit per molto tempo. Una musica suadente, fatta di speranze e promesse che però, alle orecchie attente, ricorda spaventosamente l’orchestra che continua a suonare sul Titanic che cola a picco.
La pre-Cop conclusasi ieri a Milano non fa eccezione. Le notizie del «day after» son più o meno le stesse che si leggono ogni volta, come in un rito stanco, che oppone all’urgenza di misure radicali, proclami che a forza di pronunciarli hanno perso credibilità.
E allora ecco il Vicepresidente della Commissione UE Timmermans avvertire che «i cambiamenti climatici sono la più grande minaccia per l’umanità»; gli fa eco Kerry che rilancia – come le ultime innumerevoli volte – chiamando ciascuno a fare la sua parte (senza specificare che le responsabilità sono sì comuni ma molto, molto differenziate).
I 50 ministri intervenuti dichiarano puntualmente di essere d’accordo (almeno in teoria) ad aumentare gli impegni di decarbonizzazione e anche a stanziare i famigerati, ormai leggendari 100 miliardi a sostegno dei paesi più vulnerabili (come se non lo stessero già dichiarando ogni anno da dieci anni).
Fa poi capolino l’inguaribile ottimismo di Cingolani che chiosa sperando si tratti di una «svolta storica», e annuncia con sicumera: «in futuro nessun investimento su combustibili fossili!».
Il suo concetto di futuro esclude evidentemente quello prossimo, nonché il presente e il recente passato, visto il contestato PiTESAI in dirittura d’arrivo e la decisione presa con nonchalance ad aprile, quando – a neanche due mesi dall’insediamento – aveva dato via libera a sette progetti di estrazione petrolifera (rinnovi o nuovi progetti all’interno di concessioni esistenti) ubicati tra Sicilia, Abruzzo, Marche e Emilia Romagna. Del resto, nella frase successiva al roboante ed epocale annuncio, ripreso dai titoli di molta stampa, lo stesso ministro ha precisato che «è impossibile raggiungere subito zero investimenti» e che infatti «entro fine anno verranno aperte nuove pipeline» ma ciò non contraddice, sia chiaro, che «rimaniamo sulla strada dell’uscita dal gas». Il che però, con buona pace del tentativo, Ministro, è evidentemente contraddetto dagli scenari energetici tracciati per l’Italia lungo i prossimi (parecchi) anni.
Come note di colore possono aggiungersi alla lista alcune delle uscite cui ci ha ormai immancabilmente abituati il ministro dell’ambiente più inviso agli ambientalisti. In apertura di kermesse Cingolani aveva bacchettato i giovani chiedendo loro di impegnarsi e esprimere proposte forti e chiare (come se spettasse a loro; come se ci fossero spazi di ascolto e concertazione reale e non puramente rituali), consegnando alle cronache anche un esilarante fuori onda con cui – nella trance agonistica della «sfida di concretezza» da lui indetta tra ministri e giovani delegati – aveva criticato Greta, a suo dire «addirittura meno concreta» (di lui, ndr).
Una dose di sano realismo è giunta dal presidente della Cop26 Sharma che, pur dichiarandosi d’ufficio ottimista sui risultati attesi a Glasgow, allerta sull’insufficienza degli attuali impegni nazionali di riduzione, sommando i quali nel 2030 «avremmo un aumento del 16% dei gas serra» e non l’auspicato taglio del 45%. Un dato che, da solo, dovrebbe fare più rumore di tutto il resto.
Tra i punti da sciogliere resta anche l’accordo sul phase out dal carbone. Sul quale, secondo Sharma, se i Paesi del G7 ragionano sul 2030, «per gli altri Paesi, l’obiettivo potrebbe essere al 2040». Una data che lo stesso Timmerman commenta con «stupore».
Intanto, il Milano Convention Centre che ospitava gli incontri ha chiuso i battenti. La stampa è già passata ad altro. Con i nodi che restano tutti sul tavolo, fino alla prossima volta.
Il gioco delle parti continua. Le speranze sono terzine da declamare con fervore. Gli atti concreti languono. Il tempo scorre inesorabile. Ma è la governance, bellezza! Del resto, un po’ di blabla non si nega a nessuno.
*Associazione A Sud
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