Nel suo saggio all’interno di Emancipatory Social Science (Orthotes, 2020), Franco Bifo Berardi parlando della crisi sistemica ed ecologica, conclude evidenziando due situazioni alle quali guardare per intravedere un’alternativa alla catastrofe: la prima è la «crociata dei bambini», cioè quella catena di movimenti ecologisti scaturiti dalla sensibilità radicale dei giovanissimi, e l’altra è la possibilità posseduta dalle lavoratrici e dai lavoratori della conoscenza che innervano il tessuto della produzione cognitiva e tecnica: «Ma questi 100 milioni di lavoratori cognitivi – sparpagliati nei centri di ricerca, nei laboratori di sperimentazione, nelle università, negli ospedali – possono ad un certo punto, e probabilmente per contatto con la crociata dei bambini, rendersi conto che loro posseggono la potenza per smantellare la macchina che loro stessi sono stati costretti a costruire».

Un esempio di organizzazione di questa forza lavoro, nato dall’urgenza di rispondere alla questione palestinese, è No Tech For Apartheid, una chiamata di oltre 1000 dipendenti Amazon e Google partita nel 2021 per opporsi al Progetto Nimbus, un contratto da 1.2 miliardi di dollari siglato dai colossi dell’hi-tech per fornire tecnologia cloud al governo israeliano. Facendo affari con l’apartheid, scrivono sul loro sito, «Amazon e Google facilitano la sorveglianza del popolo palestinese e semplificano il processo di esodo forzato dalle loro terre».

Da allora il portale ha raccolto quasi 88mila firme ad una lettera indirizzata ai rispettivi Ceo delle aziende. Nella lettera si fa riferimento anche alle proteste tenute dai lavoratori davanti alle sedi di New York, San Francisco, Durahm e Seattle. A seguito del 7 ottobre, come riportano su un articolo della piattaforma Medium, il clima aziendale sulla questione palestinese si è infuocato. La leadership di Google – si legge – favorisce la deumanizzazione e il razzismo verso i palestinesi sulle piattaforme ufficiali di lavoro, sulle quali sono comparsi commenti che paragonano gli abitanti di Gaza ad “animali”. Ancora, dipendenti arabi e musulmani si sono visti rivolgere domande e richieste inopportune riguardo loro eventuali simpatie verso Hamas, solo per aver espresso solidarietà al popolo palestinese. «L’executive di Google ha un doppio standard quando si tratta della libertà di espressione dei googlers israeliani rispetto a quelli arabi e musulmani»

Per approfondire gli ultimi aggiornamenti e capirne di più abbiamo rivolto qualche domanda a Cheyne, ingegnere del software a Google e attivista di No Tech for Apartheid.

Come sta procedendo l’attività di No Tech for Apartheid e cosa è cambiato dal 7 ottobre? 

Sono entrato a far parte di No Tech for Apartheid circa un anno fa, quindi posso solo parlare di quello che ho visto da allora. C’è stato sicuramente un cambiamento enorme dopo il 7 ottobre. Naturalmente c’è stata molta più attenzione sulla questione. Per i lavoratori che già sostenevano l’abbandono del Progetto Nimbus, questa è diventata una priorità più alta che mai. In tanti hanno ristabilito la priorità di impegnarsi più attivamente e hanno dedicato al problema molto più tempo. Ho anche incontrato molti lavoratori che si sono sentiti spronati a impegnarsi per la prima volta nell’organizzazione. Sfortunatamente, sembra che ci siano anche più respingimenti.

Che forme di lotta avete messo in campo in questi anni o questi ultimi mesi nei confronti della direzione delle compagnie? Parliamo di aziende con sedi in tutto il mondo, quindi anche con dipendenti soggetti a diverse legislazioni. Oltre alla petizione online come vi muovete sui posti di lavoro?

La natura internazionale delle aziende tecnologiche è sia una benedizione che una maledizione per l’organizzazione. Da un lato, è facile per noi entrare in contatto con altri che condividono le nostre preoccupazioni in tutto il mondo e costruire reti globali. D’altro canto però il rifiuto di qualsiasi cosa “politica” e la cultura disimpegnata dei lavoratori tecnologici rendono estremamente difficile la formazione di una presenza locale. Ci impegniamo principalmente con altri lavoratori attraverso sessioni informative, conversazioni individuali e piccoli incontri. Anche le mailing list sono  un buon modo per creare interazione. Tuttavia, le aziende controllano in un modo o nell’altro tutti i canali di comunicazione. La conversazione può essere facilmente interrotta se considerata troppo disturbante o fonte di distrazione. A volte dobbiamo essere creativi, un ottimo esempio per Google è Memegen, il social network interno basato sui meme. È abbastanza comune vedere lamentele di ogni tipo sollevate lì, ed è quasi impossibile interrompere la conversazione se diventa virale. A volte abbiamo anche ospitato eventi esterni vicino agli uffici, a volte proprio fuori sul marciapiede, dove l’azienda non ha giurisdizione per metterci a tacere.

Avete più volte denunciato il deterioramento dell’ambiente lavorativo negli ultimi mesi e l’uso strumentale dell’antisemitismo, anche contro lavoratori arabi. 

Ho sicuramente notato standard diversi: molti di noi hanno distribuito una petizione attraverso mailing list interne. Una persona è stata inviata alle risorse umane per questo, ma il resto di noi no. Era l’unica persona araba tra noi. Esiste una chiara disparità negli standard di moderazione applicati ai meme sul sito di social media interno, Memegen. Sono stati fatti tentativi per bloccare le donazioni di beneficenza per gli aiuti umanitari a Gaza, ma fortunatamente non hanno avuto successo.

Diversi lavoratori, me compreso, sono stati ripresi  per essersi organizzati contro il Progetto Nimbus all’interno mailing list ufficiale dell’Erg ebraico (gruppo di risorse per dipendenti). Proprio la scorsa settimana ci siamo incontrati in vari uffici per condividere informazioni sulla nostra organizzazione, tra cui diverse persone che hanno subito molestie e doxxing. Qualcuno ha scattato delle foto al gruppo con cui ero e sono state pubblicate su Twitter insieme a insulti. Non siamo intimiditi però, si tratta di un’attività protetta e intendiamo continuare a parlare apertamente.

La guerra e il progetto Nimbus hanno rappresentato sicuramente un’urgenza di organizzazione e coinvolgimento globale dei tech workers attorno ad un tema caldo. A seguito della vostra iniziativa sono emerse anche altre istanze sulla quale vi siete confrontati? Ad esempio le condizioni lavorative, o le implicazioni sul piano ecologico nel contesto del settore tech?

 Abbiamo sempre sostenuto che i lavoratori dovrebbero avere voce in capitolo su come viene utilizzato il loro lavoro, anche questo lo consideriamo come un problema relativo alle condizioni di lavoro. Qualcuno potrebbe chiedersi: perché non lavori da qualche altra parte? Perché così ci sarebbe una persona in meno a parlare in questa azienda. E a prescindere, ci sono problemi simili in tutto il settore. Anche i posti di lavoro stanno diventando meno sicuri, soprattutto ora che assistiamo a continui licenziamenti in tutto il settore tecnologico. Alcune persone hanno il visto e rischiano la deportazione. Siamo pagati bene, sì, ma molti di noi sostengono amici e/o familiari mentre l’economia vacilla per tutti tranne che per gli ultra ricchi.

Ho incontrato diversi membri di Amazon Employees for Climate Justice, che recentemente ha sostenuto No Tech for Apartheid. A mio parere, l’assedio di Gaza è un perfetto esempio di come l’ambientalismo senza giustizia sia insufficiente. Ho anche incontrato Maren Costa, una delle cofondatrici dell’Aecj, che ora si sta organizzando contro Vanguard, che ha investito oltre 300 miliardi di dollari nei combustibili fossili – Google è il loro più grande cliente aziendale. L’elenco potrebbe continuare: i lavoratori temporanei vengono sfruttati per addestrare modelli di intelligenza artificiale, i magazzini di Amazon hanno condizioni di lavoro terribili e stanno trasformando le comunità in città aziendali inquinate, le armi statunitensi vengono testate sui palestinesi e la polizia americana si addestra con i soldati israeliani attraverso programmi come Gilee. Tutte queste questioni sono collegate e tutte toccano, in un modo o nell’altro, il settore tecnologico.

No Tech For Apartheid, così come altri percorsi internazionali come Tech Workers Coalition, stanno provando a creare comunità in un settore lavorativo in cui la coesione spesso è difficile per vari motivi: isolamento individuale per lavoro da remoto, alta propensione al job hopping, o ancora un ambiente lavorativo che tende a raccontarsi come pacificato. Dalle vostre esperienze, quali pensate possano essere forme di pseudo-sindacalizzazione nel mondo tecnologico, capaci di far emergere contrasti e forme di opposizione ai modelli produttivi dominanti?

È incredibilmente difficile organizzarsi nel settore tecnologico e l’ostacolo più grande è la cultura: la maggior parte dei lavoratori tech si accontenta di tenere la testa bassa e di ignorare qualsiasi problema  non li coinvolga immediatamente, si allontanano da tutto ciò che sembra troppo “politico”. Raramente si prendono il tempo per pensare a come viene utilizzato il loro lavoro. Molti di coloro che si impegnano finiscono per intellettualizzare in modo eccessivo senza poi intraprendere alcuna azione tangibile.

Detto questo, organizzarsi nel settore tecnologico offre anche molti vantaggi: ai lavoratori tecnologici viene spesso concessa maggiore autonomia rispetto alla maggior parte degli operai. Una retribuzione più elevata offre stabilità, consentendo a molti di noi di assumersi rischi maggiori. Inoltre, siamo spesso molto vicini alla classe imprenditoriale, il che ci fornisce un vettore di influenza raramente disponibile negli spazi di organizzazione del lavoro. Inoltre, lavoriamo spesso in remoto con persone in luoghi diversi, quindi è facile creare reti in tutto il mondo.

L’Alphabet Workers Union è affiliata alla Communication Workers of America, fondata nel 1947. Nel 2020, Cwa ha lanciato la campagna per organizzare i dipendenti digitali, quindi direi che l’organizzazione in tutto il settore non solo è possibile, ma già consolidata e in crescita .

Penso che ci sia un grande valore anche in altri tipi di organizzazione degli spazi. Campagne come No Tech for Apartheid e collettivi come Tech Workers Coalition offrono concentrazione e flessibilità che non sono sempre possibili in un contesto sindacale, e poiché l’appartenenza non si esclude a vicenda (io, ad esempio, sono membro sia di Awu che di No Tech for Apartheid), le persone possono colmare il divario tra questi spazi per un vantaggio reciproco