Da costumista a sarta di burqa, i sogni infranti di Azimi in una terra «strappata»
Il racconto di una donna afghana «Non sono riuscita a prendere nessun aereo. Ho preferito bruciare i miei documenti»
Il racconto di una donna afghana «Non sono riuscita a prendere nessun aereo. Ho preferito bruciare i miei documenti»
«Se un rammendo potesse fermare lo strappo sfilettato della società afghana sarebbe molto bello” dice Azimi T., indicando con il termine inglese tear lo strappo da rammendare. Eppure quel tear vuol dire anche «lacrima», come se la voglia di un pianto, protratto da almeno vent’anni, potesse sistemare queste rovine ben più profonde di uno strappo. Azimi oggi è una sarta di burqa in una terra che va a caccia di museruole per le donne. Azimi in un tempo molto vicino era costumista per dervishi in giro per il mondo, da Tirana a Istanbul.
COM’È ESSERE una donna di cultura, a cui viene impedito di esprimere la propria arte? «Non sono una donna di cultura, sono una donna che si è impegnata e si impegna per le donne di questo Paese sin dalla metà degli anni ’80, facendo conoscere la nostra arte, il nostro artigianato, dando occasioni di lavoro a ragazze con la voglia di viaggiare e vedere altro del mondo. Diciamoci la verità: non è mai stato facile farlo da donna afghana, impegnata in un Medio Oriente che vi interessa solo a tratti, solo nei momenti eclatanti.
Qui da noi le cose sono sempre state complicate. Io ricordo, per esempio, un terribile 2014 a Kandahar, quando l’emirato arabo realizzò una serie di attentati, annunciati quasi con assurda gioia attraverso il portavoce Qari Yousuf Amadi. Preparavo allora i costumi per uno spettacolo che avremmo portato nel cuore di Atene, quando la bottega andò distrutta, lasciandomi miracolosamente viva e piena di voglia di reagire, magari lontano da Kandahar. Andai con molta fatica, e tanti sotterfugi, ad Atene, iniziai nuovamente a cucire per lo spettacolo e fui ben pagata, tanto da pensare di restare lì per un po’ di anni, almeno fino a quando il regime dei talebani non ci avrebbe lasciate in pace. Noi, le donne afghane, siamo quelle sempre in bilico fra la paura e il coraggio, sempre in balia di uomini da cui molto spesso sfuggire, sempre dipendenti da altre nazioni per le nostre sorti. Eppure Atene mi offrì tante occasioni, i soldi, i contratti e la possibilità di andare in blue jeans e maglietta in un caldissimo novembre. Mi ero buttata alle spalle Kandahar, le sue regole, i miei fratelli. Tutto».
AZIMI non ricorda di certo con piacere le truppe americane, in fondo era un altro modo per fare la guerra, per tenere il controllo, per impedire al popolo afghano di manifestare i suoi interessi, mentre in Qatar, magari a bassa voce, si dialogava coi talebani. C’è stato, però, un momento, per Azimi come per molte altre donne impegnate, in cui le montagne afghane son sembrate un posto da ripopolare, da ridiscendere almeno fino al cuore di Kabul, perché tornava a suonare la radio, la tv, si aprivano i cinema, anzi addirittura si producevano costumi e scenografie per film da affidare a distribuzioni occidentali.
«Qualcosa stava funzionando, almeno in superficie, fino al collasso di queste settimane, quando abbiamo visto gli studenti coranici riaccomodarsi nel centro della nostra capitale, come se non ci fosse stato niente prima. Avevo lasciato tutto in Grecia, con la speranza di tornare, ora qui resta poco e niente se non stoffa grezza e filo e una mezza linea internet con cui dialogare con gli attivisti che si interessano delle donne. Ho provato a scappare, non sono riuscita a prendere nessun aereo. Ho preferito bruciare i miei documenti, proprio per non lasciar traccia di una vita intensa fuori dall’Afghanistan, con abiti ‘indecenti’ per questa gente qui, che ha preso il sopravvento sotto lo scellerato annuncio degli Usa. Un annuncio prevedibilmente esplosivo».
AZIMI NON HA FATTO RITORNO nella sua vecchia casa di Kandahar, perché si trovava a Kabul nella convinzione che la resistenza afghana, sotto gli ordini del suo presidente, fosse più tenace e non lasciasse cadere la città così in fretta. E allora che fare in questo momento? Riorganizzarsi mantenendo un profilo basso, cercando di non dar troppo nell’occhio, disperdendo le proprie tracce e riportando l’ago in mano per soddisfare una richiesta impaurita di centinaia di donne che non riescono a rintanarsi nel loro burqa. Cucire prigioni per le donne avendo nel cuore il sogno di buttare tutto nuovamente via, di liberarsi da quelle stoffe pesanti e da quella paura di mostrare persino una mezza manica. Intanto però si possono cucire burqa un po’ più ampi per comodità, per fronteggiare il clima e anche per metterci dentro un cellulare da non far trovare a nessun uomo. Si può farlo in quella casupola nascosta di cui non daremo alcun dettaglio. Una casupola forse a Kabul e forse no. Azimi cuce la sua tasca segreta nella convinzione che in quello stanzino questo sia un inizio per la resistenza, un modo per fare la lotta con l’ago, un modo per difendere le donne dalle violenze.
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