Quando ci sarà un Tribunale dei popoli (e prima o poi ci sarà, se il mondo non collasserà nella barbarie), tra gli italiani alla sbarra ci sarà anche lui, Giuseppe Grillo, insieme ai Matteo Salvini, ai Marco Minniti e agli altri responsabili dell’attuale offensiva del disumano condotta sulla cerniera mediterranea dell’Europa.

Cercare di racimolare qualche pugno di voti dando voce ai peggiori sentimenti è tecnica sperimentata nei bassifondi della peggior politica nell’intero Occidente: la chiave di tutti i populismi di destra. Ma tentare di scaricare, in tempo reale, le proprie difficoltà elettorali ben visibili alle amministrative sugli ultimi (rifugiati, rom, questuanti) è un’operazione rivoltante.

Non era stato così all’inizio. Ricordo che nel 2005, sul grande prato della Pellerina a Torino, applaudii con convinzione il Grillo di allora che dava voce alle ragioni della Valle Susa, al termine di una enorme manifestazione che segnava l’avvento del No al Tav a questione nazionale.

Lo apprezzai poi, quando si mise al servizio di buone cause, dal rifiuto della privatizzazione dei beni comuni (acqua in testa) alla battaglia contro le oligarchie affaristiche e bancarie.

Era un’anomalia che un comico diventasse capopopolo, ma nella miseria politica italiana poteva apparire persino anomalia necessaria.

Quello che turba, oggi, è la trasformazione del clown in grande inquisitore, con sul volto anziché il cerone da circo la maschera ghignante del Jocker. Testimonia di quanto rapida sia la metamorfosi personale, e la dissipazione di valori e spirito di umanità, quando si entra in politica (e nella sfera avvelenata del potere) senza una fortissima riserva di anticorpi e di umiltà. O forse la vecchia immagine era finzione.

È una svolta. Di quelle che sparigliano le carte. Perché il M5S, nel suo stato nascente, aveva imbarcato un buon numero di esuli dalla sinistra, indignati, in astinenza di partecipazione, orfani delle vecchie identità conflittuali novecentesche trasformatesi in veicoli di consenso alle nuove oligarchie. E invece ora, tagliando l’esile filo della propria trasversalità, quel movimento risolve a destra – verso la destra peggiore, quella vessatoria verso gli ultimi – la propria ambiguità, votandosi a un’emorragia che già in parte si è colta, alle amministrative, verso le terre irredente dell’astensione. O – ed è uno scenario divenuto teoricamente possibile -, aprendo la strada perché quel popolo dell’esodo dalla sinistra ritrovi una nuova casa, più vicina al suo originario sentire, solo che emerga un’offerta politica adeguata, sufficientemente partecipativa, radicale, inedita e forte.

Per questo è così prezioso l’Appello di Anna Falcone e Tomaso Montanari. Perché ha tutte le potenzialità per toccare le corde sensibili di quella moltitudine esodata: ha il linguaggio non gergale, la radicalità democratica, l’istanza partecipativa, il patriottismo costituzionale (l’unico patriottismo accettabile). E ha, dalla sua, la vita vissuta dei suoi proponenti, non confondibili con la folla solitaria dei vecchi protagonisti di una politica caduta. Può, in extremis, offrire la possibilità concreta di un «nuovo inizio».

A condizione di non lasciarsi fagocitare da un esistente che non vuole trapassare, come ha ben scritto Livio Pepino. Di non finire immortalati in sbiadite fotografie di famiglia. E di offrire, invece, a chi continua a cercare, la promessa di una vera discontinuità.