In Libano, da sette mesi, un movimento auto-organizzato di rifugiate e rifugiati siriani si raduna ogni settimana davanti alle sedi dell’Unhcr. «La voce dei rifugiati», il nome che si sono dati, la voce del dolore di fronte all’Alto Commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati.

I rifugiati siriani in Libano sono circa un milione e mezzo e come gli altri non godono dei diritti che lo status di rifugiato garantirebbe. Il governo libanese non ha aderito alla Convenzione di Ginevra del 1951, rendendo agenzie come l’Unhcr inadeguate per il supporto dei rifugiati nell’assicurare standard di vita degna, sicurezza e cure mediche.

LE ISTANZE del movimento sono dirette ai paesi terzi, firmatari della Convenzione, dove gli possa venir garantito il diritto al futuro. Davanti alla sede dell’Unhcr di Beirut, una famiglia siriana, scampata dal terremoto dello scorso 6 febbraio, cerca di farsi ricevere per chiedere assistenza alimentare e medica.

La sicurezza all’esterno li informa che serve un appuntamento; per prenotarlo devono chiamare un numero a pagamento. Una prima barriera per i rifugiati che spesso non possiedono un telefono o credito sufficiente per potersi permettere di rimanere ore in attesa.

Gli appuntamenti non vengono assegnati prima di tre mesi, anche se le attese possono arrivare a superare anche un anno. Nel frattempo, i bambini non hanno accesso alle strutture scolastiche, all’assistenza medica, e neanche agli aiuti di prima necessità, come cibo o acqua.

Nel giro di dieci minuti arriva un gruppo composto principalmente da donne, con microfono e cassa alla mano. «Thawra?», rivoluzione, e con uno sguardo di intesa si schierano per terra in file disordinate per bloccare la strada. Nour, passa il microfono a un’altra donna, «Vuoi parlare?», un gesto di cura, in uno spazio di lotta.

LORO SONO le protagoniste, spiega Nada, tra le fondatrici del gruppo: «Molte madri hanno figli con gravi problemi di salute e necessitano di cure mediche che non possono permettersi». Nada attende da mesi un colloquio con l’Unhcr: «Mio figlio ha bisogno di assistenza sanitaria. Mi dicono di aspettare l’appuntamento, mentre mio figlio sta morendo».

Rada, invece, ha passato mesi in prigione a Damasco per aver partecipato alla rivoluzione del 2011 in Siria. Quando prende parola, il suo dolore agita le altre persone, fluendo in un fiume condiviso di indignazione. Poco dopo sviene a terra, esaurita dalla sua stessa forza. Alle richieste di una bottiglietta d’acqua per farla rinvenire, la sicurezza dell’Unhcr si volta dall’altro lato.

«Vogliono questo, non gliene importa nulla se un siriano muore, anzi per loro è meglio», grida Assad. «Le persone hanno paura che la polizia possa arrestarli o ancor peggio che l’Unhcr chiuda i loro fascicoli», spiega Nada.

Un ragazzo viene fermato dalla sicurezza per aver filmato una dipendente dell’agenzia spintonare una madre con in braccio il figlio paralizzato. Gli aprono il telefono e iniziano a eliminare video e foto.

POCHE ORE DOPO, la famiglia siriana scampata dal terremoto viene avvisata: l’Unhcr ha deciso di chiudere il suo fascicolo. Le proteste dei rifugiati in Libano contro l’Alto commissariato Onu non sono isolate: mobilitazioni si registrano in Libia, Tunisia, Egitto, Marocco.

Davanti alle proteste auto-organizzate e pacifiche, l’agenzia Onu ha reagito spesso con sgomberi brutali e fermi dei manifestanti, imposti dal personale di sicurezza dell’Unhcr.

Da qui è nata un’alleanza transnazionale e il lancio della campagna collaborativa «UNFAIR – The UN Refusal Agency», che mira ad amplificare le voci di tutti coloro che continuano a essere ignorati, puniti e trattati ingiustamente da un’agenzia che dovrebbe proteggerli.