Cynthia Rimsky, destinazioni sconosciute per viandanti vecchi e nuovi
Scrittrici cilene L’esilarante relazione tra un anziano padre e sua figlia viene sottoposta alla prova di un viaggio verso un altrove indefinito, mentre attorno a loro vorticano marginali quanto folgoranti vicende: «Yomurí», da Edicola
Scrittrici cilene L’esilarante relazione tra un anziano padre e sua figlia viene sottoposta alla prova di un viaggio verso un altrove indefinito, mentre attorno a loro vorticano marginali quanto folgoranti vicende: «Yomurí», da Edicola
Cynthia Rimsky, nata nel 1962 in una famiglia di ebrei ucraini emigrati in Cile , è stata una ragazza che, laureata in giornalismo all’Università di Santiago nei primi anni ’80, si è vista rifiutare tutti i testi inviati a quotidiani e riviste, perché «troppo letterari», non proprio articoli e non del tutto racconti, inclassificabili nella forma come nel contenuto.
Rifiuti provvidenziali, in un certo senso, perché Rimsky finì per convincersi che la sua strada era quella della letteratura, anche se imboccarla sembrava tutt’altro che facile: per molto tempo non le riuscì di concludere un solo racconto, finché non le capitarono tra le mani i quaderni di viaggio di Walter Benjamin, la cui lettura le insegnò che «lo sguardo non è un dono: lo si costruisce. Lo sguardo coglie e trasforma ciò che si vede in un’altra cosa. Questo mi salvò, mi trasformò in scrittrice… Ho cominciato allora, e non mi sono fermata».
Alla nascita del suo primo libro, tuttavia, contribuì oltre a Benjamin anche un album scovato in un mercatino delle pulci, che conteneva le foto di una famiglia europea con il suo stesso cognome, ritratta nei medesimi luoghi dai quali provenivano i suoi nonni.
Fu allora che Rimsky decise di partire alla ricerca delle proprie origini (il suo pellegrinaggio in Europa e in Medio Oriente durò più di un anno), per rendersi infine conto di quanto poco le importasse definirle, perché il vero punto d’arrivo non era la conquista di un’identità che sarebbe stata comunque incerta e sfocata, ma per l’appunto la scrittura di Poste restante (2001), che non sarebbe esatto considerare solo una cronaca di viaggio o un esercizio di autofiction.
Costruito per frammenti, popolato di incontri, storie e personaggi che si incrociano, sorretto da un’immensa curiosità, fitto di immagini (non semplici illustrazioni, ma un vero e proprio testo parallelo), Poste restante mette le basi della narrativa di Rimsky e ne contiene già i temi principali: il viaggio come fonte di conoscenza e di nuovi punti di vista, l’incontro con l’altro, la necessità del dubbio, la memoria e il modo in cui agisce su ciascuno di noi e sul presente, concorrendo a una nuova costruzione del senso.
Pur restando fedele a queste linee portanti, l’autrice cilena ha lavorato in modo costante sulla forma, mescolando i generi (cronaca, romanzo, saggio) e concentrandosi su una scrittura evocativa e ricca di minuti dettagli, più che su trame ben strutturate – «La storia non è fuori dalla parola, le parole non sono un mezzo per raccontare una storia, la storia è la parola» – così da rendere ogni opera un pezzo unico, ma riconoscibilmente suo.
Dal complesso e tragico Ramal (2011) a Los perplejos (2018), sorta di biografia immaginaria del filosofo ebreo Maimonide, a Autostop per la rivoluzione (Edicola 2022) che racconta il suo soggiorno in Nicaragua durante il conflitto con i Contras, è andata sperimentando differenti possibilità di «montaggio» del testo, finché Il futuro è un posto strano (Edicola 2021), rivisitazione degli anni ’80 in Cile, ha segnato un’ulteriore svolta nel suo modo di raccontare. S
critto dopo il trasferimento in una zona rurale in provincia di Buenos Aires, quest’ultimo romanzo nasce come gli altri da un nucleo di esperienze personali, elaborate e trasformate fino a collocarle risolutamente nel territorio della finzione; ma a differenza dei precedenti dà ampio spazio all’invenzione pura, annunciando quello che la Cynthia Rimsky «argentina» (lettrice di César Aira e di Juan José Saer, di Lucio Mansilla e di Libertad Demitrópulos) definisce un racconto di avventure: titolato Yomurí (traduzione di Silvia Falorni, Edicola edizioni, pp. 274, € 18,00) è stato giudicato dallo scrittore e critico messicano Emiliano Monge «angosciosamente divertente e paradossalmente luminoso», facendogli avvicinare l’autrice al Gospodinov di Cronorifugio.
In realtà non è semplice individuare quali siano le parentele e le influenze di Cynthia Rimsky, un caso unico all’interno della letteratura cilena, che appare insensibile alle richieste del cosiddetto mercato e ama sconcertare il lettore, invece di tenerlo per mano e soddisfarne le aspettative più prevedibili.
Con Yomurí ci troviamo davanti a un primo capitolo da commedia brillante, che mette in scena con tocco leggero la vecchiaia rovinosa di Kovacs, ex diplomatico e donnaiolo, espulso dal domicilio coniugale da una terrificante quinta moglie e affidato alla figlia Eliza, perché lo ricoveri nella casa di riposo Villa K. (luogo di sinistra efficienza in cui anche respirare ha un prezzo, descritto con un umorismo tagliente).
La storia, però prende un’altra piega quando il padre convince Eliza ad accompagnarlo verso sud, in un luogo imprecisato dal nome incerto (Yomurí, o forse Yomorí), simile alla Araucania cilena o alla Patagonia argentina; ci ritroviamo così in piena road novel, mentre il viaggio dei Kovacs si intreccia a quello di un gruppo di indios decisi a riprendersi le terre avite, cui si è unita Cari, studentessa ventenne che ha appena scoperto di essere india per metà e vuole conoscere da vicino l’etnìa rinnegata dal padre e allo stesso tempo, com’è inevitabile alla sua età, «trovare sé stessa».
Se Cari fa pensare a una parodia della Cynthia di Poste restante (ormai matura e non più convinta dell’importanza di identità e patrie), e se dietro gli indios alla conquista di Yomurí si intravedono i Mapuche e le loro occupazioni di terre, represse prima dalla dittatura e poi dai governi «democratici», Eliza e Kovacs ci forniscono una rappresentazione attendibile ed esilarante del rapporto padre-figlia e di una vecchiaia intrepida, decisa a sfruttare fino in fondo il tempo che rimane.
Intorno a loro, un’infinità di vicende secondarie, piccole scene folgoranti e frasi memorabili, finché le bizzarre peripezie virano improvvisamente verso un finale drammatico e stilizzato, che ha il ritmo folle e i colori surreali di un videogioco sanguinoso.
Yomurí è un pezzo di bravura, un testo straniante, sottilmente politico e politicamente scorretto (perché «se dubiti, devi dubitare di tutto» dice Rimsky, cresciuta tra le certezze dell’ebraismo e quelle della militanza a sinistra): un testo che sottolinea la natura contraddittoria, enigmatica e confusa della realtà, mai compresa ma attentamente osservata da Eliza, nominata «veditrice a tempo pieno» dalla Principal Heredera, la donna saggia che guida il gruppo.
Alla figlia di Kovacs – vera protagonista la cui voce, nonostante l’uso della terza persona, prevale su quella degli altri personaggi – è toccato infatti il ruolo di occhio onniveggente che deve vegliare sul rispetto delle norme. Solo che quelle norme nessuno gliele ha spiegate: lei non le conosce, e se le conoscesse forse non le capirebbe, esattamente come accade alla maggior parte di noi.
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