Sotto la forma finzionale di un diario intimo composto da brevi capitoli-episodi, la Storia della mia lingua della cilena Claudia Apablaza (tradotto da Marta Rota Núñez per Edicola, pp.136, € 13,00) restituisce, attraverso alcune scene appena evocate – la seduta dalla psicoanalista, quella dalla dentista, il pranzo con la figlia al ristorante – lo spaesamento linguistico della voce narrante: uno spaesamento che avviene, paradossalmente, all’interno dello stesso idioma, il castigliano, le cui divaricazioni oceaniche provocano alla straniera iberoamericana trapiantata in Spagna diversi momenti di incomunicabilità o di improvvisa messa a nudo della propria identità.

Uno slittamento, o meglio una oscillazione dell’oggetto del discorso rende originale il libro di Apablaza, e gli evita il rischio altrimenti alto di convenzionalità (ansioso com’è di essere ascritto all’onnipresente «autofinzione», e all’immancabile genere «ibrido», e ancora di esibire in pagina la prole della scrivente, vero orgoglio transnazionale delle scrittrici e degli scrittori di oggi. Non c’è barriera equatoriale che tenga): la questione della lingua è infatti declinata nel testo anche, se non soprattutto, letteralmente, perché chi narra soffre di disturbi che richiederebbero l’intervento, forse, del logopedista, pure lui trascinato però a sua volta nel vortice «ñamericano», poiché, secondo la cultura della protagonista-narratrice, quella figura dovrebbe chiamarsi, come è costume in Cile, fonoaudiologísta.

Mentre si susseguono via via i dispacci all’ombra della complessa e ricchissima rete della ispanofonia, anche i momenti diaristici più tradizionali – il primo bacio, qualche appunto autoreferenziale sui propri romanzi e relativi titoli – partono dal leitmotiv dolcemente ossessivo, mai davvero perturbante, della lingua, con annessi e i connessi: i denti, e la saliva.

E forse proprio la saliva, insieme alla grande economia di testo che l’impaginato presenta, si direbbe rimandare, piuttosto che ad altri titoli latinoamericani degli ultimi anni, ad alcuni momenti anti-elegiaci del maestro cileno delle Antipoesie, Nicanor Parra, il quale al «tracannatore di saliva» dedicò versi memorabili, che la sua giovane connazionale, nata a Rancagua nel 1978, non può certo ignorare.

Pur non essendone probabilmente il modello, Parra sembrerebbe in qualche modo suggerire da lontano ad Apablaza una certa frugalità, un certo non soffermarsi, che si ritrova in Storia della mia lingua e lo rende un testo curiosamente poetico, e mai compiaciuto della propria eleganza à la page.